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OLTRE IL MALE:

DALLO STATO DI NATURA ALLO STATO POLITICO

(O DI CULTURA) 

  di

  Andreas Perugini 
 
 
 

Sommario 
 
 

prefazione            

Introduzione: il seme del male        

* L’ideologia del primitivo        

-il leviatano           

-dall’origine della diseguaglianza al contratto sociale    

-dalla famiglia ariana alla casa collettiva

* L’animale politico (ovvero: la gerarchia delle scimmie e la scimmia nuda) 

-le origini biologiche della società

-il governo primitivo         

* Il conflitto (va avanti ancora)        

* Il signore delle mosche         

* Conclusioni          

-la diade destra-sinistra         

-la natura degli stati          

-il progresso verso la civiltà        

-“non è questo ancora il peggiore dei possibili mondi”    

-“l’uomo nuovo”: boscimane tecnologico del terzo millennio     

note            

bibliografia         
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

“Amo l’Umanità, è la gente che non sopporto.”

(Linus) 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Prefazione 

Questa breve ricerca tratta del “male” negli uomini, nella società (o negli stati), e nella natura.

Non pretende di risultare esaustiva nel campo, per altro estremamente vasto ed intricato, degli studi sulle cause prime dell’aggressività umana né, tanto meno, vuole affrontare in modo esauriente il problema dell’autoritarismo più o meno marcato che caratterizza le società in cui l’uomo si è organizzato nel corso dei secoli su tutta la superficie del pianeta. Piuttosto qui ci interessa focalizzare l’attenzione su quella che viene definita “la concezione antropologica dell’uomo” (cioè come la natura intima dell’uomo viene concepita) essendo noi convinti sottendere particolari modelli politico-sociali di riferimento, come, inoltre, la concezione del nostro ruolo nella società ed il senso stesso delle società e degli stati.

La ricerca da noi condotta è tanto breve quanto eclettica e si dispiega oltre l’antropologia lambendo filosofia, psicologia sociale, sociologia, etologia, le scienze politiche, quelle giuridiche, la teologia, la storia e l’archeologia. Abbiamo, inoltre, considerato opportuna la sintetica analisi di un romanzo: Il signore delle mosche, che abbiamo ritenuto particolarmente esemplificativo nell’ambito della trattazione di questo specifico tema. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

INTRODUZIONE: 
 
 

IL SEME DEL MALE 

“Algeria: cronaca di un massacro”, “Pol Pot, autodifesa di uno sterminatore”, “Noleggiava videogiochi, uccisa”, “Cicciano: l’orco nella casa degli orrori”, “ I cinque killer di Trento: è morto andiamo al bar!”1

Una violenza diffusa, il più delle volte inaudita, spesso difficilmente comprensibile. È questo tipo di violenza che ha contribuito a sedimentare nei più la convinzione che nell’uomo esista una sorta di lato oscuro e malvagio che può emergere dalla latenza e sfociare nella ferocia. È questo tipo di violenza che ha radicato la convinzione che l’uomo sia una “bestia malata” peggiore degli altri animali perché dotato di un cervello tanto sviluppato quanto degenerato; una bestia che ha scritto nel suo patrimonio genetico la sua propensione alla violenza ed è solo questione di tempo prima che questo seme del male germogli per fiorire drammaticamente.   
 
 
 
 
 
 
 

L’IDEOLOGIA DEL PRIMITIVO

 

Nel ‘700, in pieno illuminismo, trova impulso il grande dibattito sul progresso come allontanamento dalla natura. Fondamentalmente il progresso è sì visto come mezzo atto al dispiegamento della vera natura e della ragione umane, ma fin dall’inizio emerge il latente timore dell'allontanamento e della perdita rispetto ad una natura originaria idealizzata.

È J.J. Rousseau a fare emergere dalla latenza questo timore e a proporsi come massimo esponente di una posizione che appare, ben presto, rivoluzionaria, ponendosi, non solo, in antagonismo con la tradizione politico filosofica perorata, tra gli altri, da Macchiavelli prima e Hobbes poi, ma che scardina dalle fondamenta la concezione teologica del peccato originale, dove troppo spesso si era impantanata la posizione illuministica classica: la concezione secondo cui la natura umana è originariamente cattiva, decaduta, e solo il progresso della riflessione e del sapere a danno degli impulsi originari vale a riscattarla.

Ma procediamo con ordine... 
 
 

IL LEVIATANO 

Per T. Hobbes il dramma dello stato di natura non consiste in un semplice rapporto di concorrenza ma nell’ostilità inconciliabile che regna fra gli uomini che sono condotti dalla loro stessa natura a cercare di sottomettersi a vicenda per affermare la propria superiorità. In definitiva gli uomini sono nella loro massa malvagi e bene si addice loro la massima da Terenzio coniata “homo homini lupus”. Hobbes interpreta le motivazioni ultime dell’agire umano ricercandole nella natura egoistica e dagli impulsi animali di cui è dotato. Di fronte all’interesse individuale, quello generale scompare, anzi, non esiste neppure, sino a quando non sia matura l’idea che difendere l’interesse generale è il mezzo più efficace per tutelare quello personale.

È da qui che nasce lo Stato Politico, dall’esigenza di emancipazione da un’esistenza “tanto solitaria, misera, disgustosa, bestiale e breve” segnata dal perpetuo conflitto tra gli uomini. È da qui che nasce il Leviatano!

Compito essenziale dello Stato è dominare le forze interiori (le passioni e gli impulsi egoistici) da cui deriva la lotta tra gli uomini e la loro insicurezza, precarietà di condizione, ed angoscia.

Allo Stato viene dato il diritto assoluto sui singoli, divenuti parti di un corpo politico, riducendo l’estensione, altrimenti illimitata, del diritto naturale. Ciò che rimane, una volta instaurato il potere statale, e come contropartita di una sudditanza completa, è il solo diritto alla vita. La sudditanza totale dei singoli, tuttavia, riguarda soltanto la sfera dei comportamenti pubblici, non l’ambito privato, nel quale ogni uomo, conserva intatta la propria libertà naturale.

Risulta rilevante come Hobbes si inserisca nella tradizione politica contrattualistica rifiutandosi però di riconoscere un fondamento metastorico o teologico al potere assoluto dello stato. Hobbes gli attribuisce soltanto un fondamento antropologico: il diritto assoluto dello stato trae origine dall’azione cruciale con la quale gli uomini, per loro libera scelta, passano dallo stato di natura a quello civile. Il potere assoluto dello Stato, che pure si esercita con mezzi essenzialmente coercitivi, non trae origine da un atto di forza, ma da una decisione collettiva, volontariamente pattuita dai singoli che entrano a far parte del corpo politico. Solo da un contratto “originario” può, così, nascere l’autorità sovrana dello stato.

Il patto di cui parla Hobbes (così Rousseau) non va, comunque, inteso come un fatto storico, ma piuttosto come un modello teorico che consente di giustificare la necessità di un potere forte e stabile, capace di reprimere gli istinti naturali degli uomini, con il loro potenziale distruttivo ed antisociale. Così, simile al Leviatano, mostro biblico divoratore di ogni specie animale, lo Stato impedisce con la coercizione l’uso della violenza da parte dei singoli individui stabilendone, in questa maniera, il monopolio.

Sottolineiamo infine, come per Hobbes lo Stato politico rappresenti l’emancipazione dalla condizione umana naturale, precaria nell’ambiente, miserrima e moralmente spaventosa “nell’anima” che funge da completamento dello stato naturale, in quanto asseconda la naturale condizione di concorrenza (la selezione naturale secondo il darwinismo), ma la mitiga con le “regole” per scongiurare il pericolo autodistruttivo.   
 
 

DALL’ORIGINE DELLA DISEGUAGLIANZA AL CONTRATTO SOCIALE 

“Simile al corpo di Glauco che il tempo, il mare, e le tempeste avevano completamente sfigurato da farlo rassomigliare più ad una bestia feroce che ad un dio, l’anima umana, alterata in seno alla società da mille cause continuamente rinnovate (...) ha, per così dire, mutato aspetto, al punto d’essere quasi irriconoscibile, e al posto di un essere guidato sempre da principi fissi e immutabili, al posto di quella celeste e maestosa semplicità che il suo creatore vi aveva impresso, non ritroviamo che il contrasto informe tra la passione che crede di ragionare ed il raziocinio in delirio.”  

“Il male è nato con la società, e con la società, purché debitamente rinnovata, può essere espulso e debellato.” (J.J. Rousseau) 
 
 

Radicalmente opposta a quella di Hobbes risulta la posizione di Rousseau. Il suo sforzo è teso alla dimostrazione e alla propaganda di una natura umana benigna, priva, per così dire, di innate patologie aggressive. La sua è una concezione antropologica estremamente positiva: l’uomo è intimamente e naturalmente buono. Così, pur condividendo con gran parte degli illuministi un’impostazione storica del progresso, differentemente da questi, riesce a recidere quel cordone ombelicale che i philosophes, malgrado tutti gli sforzi, mantenevano con la tradizione giudaico-cristiana del peccato originale.

Dei vizi della civiltà e delle aberrazioni del comportamento umano non sono responsabili né Dio né la natura dell’uomo la quale, appunto, non è per essenza corrotta o  maligna. Il male è imputabile soltanto all’ordinamento sociale, alla storia dei rapporti interattivi fra gli uomini e alle circostanze contingenti in cui si è sviluppata. Ma poteva dare altri esiti. Emerge dunque, contrapposto ad un ottimismo antropologico un pessimismo storico. La genesi del male è individuata nel passaggio dallo stato di natura allo stato politico. Come per Hobbes anche per Rousseau quello di stato di natura rimane comunque un concetto limite, storicamente indefinito, ma che ha la funzione teorica di fare emergere per contrasto i tratti distintivi dello stato politico. E così è almeno in parte, anche per il mito del “buon selvaggio” così amato dall’autore francofono, archetipo di un uomo che non esiste più, che forse non è neppure mai esistito e che potrebbe anche non esistere mai, ma di cui, tuttavia, è necessario possedere una cognizione esatta per poter giudicare bene il presente e potere costruire il futuro.

Secondo Rousseau gli uomini nello stato di natura vivevano isolati e dispersi, avevano incontri sessuali occasionali. Erano esseri dominati dai sensi  più che dal raziocinio e dall’immaginazione. I desideri non superavano i bisogni vitali e questi trovavano immediata soddisfazione: “l’anima da nulla turbata, si abbandona al solo sentimento della propria esistenza presente, senza alcuna idea dell’avvenire” e senza percezione morale del giusto o dell’ingiusto, del bene e del male, come credevano invece i giusnaturalisti. I sentimenti fondamentali che lo caratterizzavano erano l’amore di se che sottende l’autoconservazione, e la pietà che, comportando l’identificazione con ogni altro essere vivente che soffre, sottende una sorta di solidarismo universale.

Come Levi Strauss ci fa notare, nel suo tentativo di porre Rousseau come padre fondatore anche del pensiero etnologico, tanta era la ripugnanza innata a veder soffrire il suo simile da obbligare l’autore a vedere un proprio simile in ogni essere esposto alla sofferenza. E da qui il rifiuto di tutto ciò che può rendere accettabile l’io: in verità io non sono io, ma il più debole, il più umile degli altri... l’animale! Prima di essere “io” bisogna essere “lui”.

Secondo Rousseau i primi ostacoli posti dall’ambiente naturale hanno dato impulso alla nascita delle prime relazioni sociali stabili. Con le tecniche della caccia, della pesca e della costruzione di capanne, gli uomini hanno cominciato ad “addomesticarsi” i sentimenti ad affinarsi e le unioni sessuali occasionali a diventare rapporti più duraturi. Sono poi nati il linguaggio, il canto e la danza. La metallurgia e l’agricoltura risultano le due rivoluzioni tecniche decisive per il passaggio dell’uomo dallo stato di natura a quello politico con tutta la “perdita” che questo ha comportato. Si ricordi infatti, come per Rousseau il male della civiltà presente sia imputabile ad uno sviluppo distorto della società che in particolare si è indirizzata verso una sempre maggiore differenziazione dei ruoli e che ha sviluppato in modo deforme il concetto di proprietà privata, tanto da sancire l’ingiustizia e la disuguaglianza quasi a suo fondamento. Rousseau, comunque, è lungi dal volere riportare l’umanità “nelle foreste con gli orsi” ed è per questo che dopo il “Discours sur l’origine de l’inegalité parmi les hommes” il suo sforzo viene tutto indirizzato allo studio delle “Istutions politiques” nell’intento di definire natura e termini dello stato politico. Poiché nessun uomo ha per natura autorità sul suo simile, e poiché la forza non produce nessun diritto, sono le convenzioni che fungono da base d’ogni autorità legittima tra gli uomini. Il patto volontaristico ed unanime tra gli uomini sotto forma di contratto, è l’unica strada che permette loro di emanciparsi dai soprusi della forza dei singoli e di stringersi in società. Chiamiamo questo patto “Contratto Sociale”. Il contratto si fonda sui valori di libertà, giustizia ed uguaglianza, valori che sono gli unici che possono legittimare il patto e garantire l’esistenza stessa dello stato politico e l’adesione dei singoli a questo. Ciascun membro diventa così parte individuale del tutto ed il bene generale obbiettivo comune.

Con il Contratto Sociale l’uomo perde la sua libertà naturale ed un diritto illimitato su tutto quello che lo tenta e che può essere da lui raggiunto secondo le sue forze. Ciò che guadagna è la libertà civile, la fine dell’angosciante precarietà della sua condizione per una nuova condizione di sicurezza. Fondamentalmente il contratto sociale sostituisce l’inuguaglianza fisica “per forza ed ingegno” che la natura aveva potuto insinuare tra gli uomini, con l’uguaglianza morale.

Inutile dilungarsi oltre nei dettagli della forma, ci preme, invece, sottolineare ulteriormente come il contratto sociale sia un patto che tutte le democrazie dovrebbero riscoprire e tutti gli uomini conoscere con consapevolezza come essenza stessa delle società in cui viviamo. 
 
 

DALLA FAMIGLIA ARIANA ALLA CASA COLLETTIVA 

Da Rousseau in poi viene così ad emergere dalla latenza il senso della perdita subita dall’umanità nel suo passaggio allo stato politico; si concretizza, poi, come vedremo, anche il senso del rimorso.

Secondo Fabietti ancora oggi, nell’uso comune impieghiamo il termine “primitivo” caricandolo spesso di un giudizio di valore per designare uno stato che ci appare il più lontano possibile dal nostro stato attuale. Attraverso il linguaggio, non facciamo altro che riattivare un’ideologia di progresso che è tipica ed esclusiva della nostra società.

Una parte della responsabilità di questa distorsione, va sicuramente attribuita alla prima etnologia che, nata in ambito coloniale, ha mantenuto a lungo rapporti promiscui che l’hanno negativamente influenzata, o se vogliamo compromessa. Interpretiamo sotto questa luce, ad esempio, le teorie dell’evoluzionismo come quella degli stadi di Morgan (1818-1881) che credeva in un disegno di progresso voluto da un’intelligenza superiore e che credeva nella superiorità tra le etnie della “famiglia ariana” in quanto aveva bruciato le tappe dei periodi etnici attraverso i quali tutte le famiglie umane erano destinate a svilupparsi: dallo stadio della selvatichezza a quello della civiltà. Si stia, però, attenti a non confondere Morgan per una sorta di protonazista. Secondo la formulazione della sua legge del progresso, quest’ultimo non è considerato solo in relazione alla “ricchezza” ma coincide anche con quello dell’uguaglianza e della fratellanza senza dimenticare, che comunque sia, le teorie evoluzioniste sono state fondamentali per lo sviluppo della scienza etnologica ed antropologica (la ricerca di un’unità della specie umana! Ecco la sua importanza!) scienza, che come vedremo, risulta fondamentale per una cultura “della tolleranza e del progresso”.

È solo nel periodo tra i due conflitti mondiali che l’antropologia inizia concretamente a superare il mito evoluzionista e la visione altamente positiva che l’Occidente aveva di sé ed è da qui che l’antropologia comincia a raccogliere le simpatie di chi addirittura vede nelle società primitive l’incarnazione di un passato irrimediabilmente perduto. Fino ad allora dettavano legge, chi più chi meno, la sia pur rilevante teoria delle sopravvivenze e della diffusione di Tylor (le sopravvivenze sono elementi di una cultura la cui origine risale a forme culturali precedenti e la cui individuazione permette di seguire il tracciato dell’evoluzione dato che questa sarebbe avvenuta secondo modalità pressoché identiche per tutti i popoli della Terra), quella della differenza “razziale” di Klemm (tra razze attive e passive), o le teorie sulle forme successive nella storia della parentela e del matrimonio come quella di Mac Lennan. In precedenza, solamente pochi autori avevano fatto breccia nel muro evoluzionista evitando di propagandare la superiorità occidentale. Waitz, ad esempio, rifiutava di considerare lo sviluppo ritardato delle altre popolazioni rispetto a quelle europee senza considerare la totalità della loro storia. L’anarchico russo Aleckseevic Kropotkin condannando l’ingerenza darwinista nelle scienze sociali esaltava invece il mutuo appoggio tra i selvaggi e notava la “mutilazione” degli occidentali che rafforzando i legami esterni nei rapporti di interazione avevano, però, perso la solidarietà interna. Vi era poi stato il contributo di Engels che riscopriva l’antico comunismo delle donne ed enunciava l’avvento della monogamia come prodotto del patriarcato ed il matrimonio come prima situazione di contrasto di classe. È Levy Bruhl che, infine, segna l’abbandono delle concezioni evoluzioniste sostenendo che la mentalità dei “primitivi” non è qualcosa di omogeneo o di più semplice rispetto a quella europea, ma è solo diversa. Le loro categorie mentali, sono ascientifiche ma non irrazionali.

Nasce mutuato dalla sociologia di Durkheim (positivista-funzionalista) il funzioalismo antropologico che, tra l’altro, grazie a Malinowskj, attraverso Parsons, torna preponderante sulla scena sociologica della terza generazione. Vale la pena ricordare l’intuizione durkheimiana: le istituzioni adempiono a funzioni specifiche presenti in tutte le società, indipendentemente dal grado di sviluppo. Alcune di queste istituzioni (o se vogliamo strutture) adempiono funzioni non evidentemente deducibili. È il caso della religione, che attraverso i culti funge da coesore sociale.

Il merito del funzionalismo sta nell’aver risolto il problema di paragonare tra di loro, senza cadere nella trappola dell’etnocentrismo, societá dalle più semplici alle più complesse. Le diversità di queste società stanno nel modo diverso di come  soddisfano gli uguali bisogni. Svuotato di senso risulta, in questo modo, il progresso nell’accezione evoluzionista. Malinowskj può così mettere in discussione la convinzione che il conflitto affettivo vissuto in Occidente sia veramente universale come sembrava sostenere Freud.

Lewis Strauss, recuperando il pensiero rousseauliano, ripropone con forza il tema della perdita e del rimorso occidentali. La natura ha espulso l’uomo ma la società persiste ad opprimerlo, e l’uomo arrogatosi il diritto di separare radicalmente l’umanità dall’animalità, accordando all’una ciò che toglieva all’altra apre, così, un circolo vizioso: la stessa frontiera, costantemente spostata indietro, sarebbe servita ad escludere dagli uomini altri uomini!2

Con l’apporto, soprattutto, della Benedict e della Mead, che ricorrono all’aiuto della psicologia e della sociologia, l’antropologia americana approfondisce lo studio della formazione e delle caratteristiche culturali della personalità ovvero del carattere inconscio della cultura, mentre lentamente si fanno strada gli antropologi del cosiddetto dinamismo che, pur non formando una vera e propria scuola, sono uniti da alcune fondamentali convinzioni. Bisogna, cioè, accettare la morte del primitivo e guardare non tanto all’armonia e all’omogeneità delle società tradizionali, quanto agli sconvolgimenti che la storia ha loro imposto.

Ma secondo Fabietti altri autori maggiormente rappresentano la conversione dell’antropologia da scienza al servizio del colonialismo occidentale prima e dell’imperialismo poi a scienza che ne può denunciare la tracotanza riscoprendo la ricchezza culturale delle etnie diverse dalla nostra. Robert Joulin, Pierre Clostres, Jean Monod denunciano la civiltà occidentale caratterizzata “dall’istinto di aggressività”3 e dalla volontà di sopprimere l’altro come individuo e come cultura. Riprendono la concezione comune a numerose etnie “selvagge” di un universo come “casa collettiva” in antitesi all’universale etnocentrico occidentale fagocitore dell’altro nel proprio io culturale. Riscoprono, infine, popolazioni come quelle amazzoniche che sembrano aver estromesso il potere dalla cultura relegandolo nella natura riuscendo così a costituirsi in società politiche prive di stato e quindi di alienazione economica pur restando societá dell’abbondanza del tempo libero4 . 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

L'ANIMALE POLITICO

(OVVERO:  LA  GERARCHIA  DELLE  SCIMMIE  E  LA  SCIMMIA  NUDA) 

Aristotele osserva, attorno al 340 A.C., che “l'uomo è un animale politico” (anche se sembra che questa sia una traduzione mediocre). L’antropologia ci può dare la possibilitá di conoscere noi stessi, la nostra natura, attraverso la conoscenza degli altri e ci da la possibilità di poterci criticare, di considerare il progresso non come di una sola cultura o di una sola razza ma come un processo plurilineare: molto di quanto noi consideriamo “naturale” e persino “umano” risulta poi non essere tale. Per questo motivo, dovrebbe essere utile conoscere il pensiero etologico intorno questo particolare tema ed analizzare poi alcune delle organizzazioni politiche che gli uomini si sono dati nel corso della loro storia alle diversi latitudini e longitudini del pianeta. 
 
 

LE RADICI BIOLOGICHE DELLA SOCIETÀ 

Hilary Callan sostiene che non siamo in grado di considerare il rapporto tra l’umanità e gli altri animali in modo completamente obiettivo. Abbiamo ereditato una tradizione di assiomi che dà all’uomo una collocazione particolare nell’universo materiale e spirituale. Sebbene, in coscienza, non possiamo più condividere l’opinione antropocentrica dei nostri antenati, molte delle sue, implicazioni, sia pure spesso inconsapevolmente, non possono non influenzare ancora il nostro pensiero.  Ciò in parte avviene perché non abbiamo ancora sostituito la concezione dell’uomo posto al centro dell’universo con una visione globale ed assolutamente coerente di noi stessi.

Naturalmente l’uomo ha sempre saputo di essere in un certo senso un animale, ma per secoli l’intellettuale occidentale ha ammesso con difficoltà la parentela fra se stesso e il resto del mondo animale. La consapevolezza di questa parentela, infatti, lo mette a disagio per diverse ragioni, la più semplice delle quali è la minaccia che l’ammissione della sua natura animale potrebbe costituire alla sua convinzione di unicità, alla sua dignità in quanto uomo. Egli era costretto a immaginare se stesso come consanguineo degli animali superiori, specialmente delle scimmie, nell’aspetto e nella fisiologia, e in certi fondamentali modelli di comportamento, come il nutrirsi, il dormire e l’accoppiarsi.  Ma nello stesso tempo, sul piano filosofico e teoretico, non poteva fare a meno di considerare se stesso l’unico essere razionale, non poteva che vedere se stesso come possessore di un’anima o anche come prodotto di un divino atto di creazione. La filosofia tradizionale separava nettamente lo spirito dalla materia.  L’anima dell’uomo e le sue più alte capacità intellettuali stavano da un lato di questa barriera impenetrabile; il corpo e le sue funzioni vitali e il resto del mondo materiale dall’altro.

Questa tradizione dualistica rappresenta ancora un altro ostacolo nell’esaminare obiettivamente il legame tra l’uomo e gli animali.  Ogni volta che un sistema intellettuale crea distinzioni nette tra una categoria di oggetti e un’altra, sembra che si tenda ad attribuire un significato particolare a tutto ciò che non riesce a rientrare né nell’una né nell’altra categoria. Tutto ciò che possiede caratteristiche di entrambe le categorie sembra minare alle basi lo stesso sistema intellettuale, tendendo, ad assumere una speciale situazione rituale o a diventare il punto focale di particolari atteggiamenti, come l’avversione profonda o il fascino coercitivo.  Date le nostre abitudini di pensiero antropocentriche, non c’è da meravigliarsi se valutiamo con un certo grado di ansiosa alterazione qualsiasi osservazione che offuschi la distinzione tra uomo e animale.

Dobbiamo vincere questi ostacoli intellettuali mediante l’osservazione oggettiva dei campi nei quali il nostro comportamento assomiglia a quello degli altri animali. In relazione allo studio della società, esaminiamo qui il valore dell’applicazione al comportamento e all’organizzazione sociale umani di quello che si può chiamare pensiero biologico. Il pensiero biologico comprende il problema evoluzionistico di come la società umana sia venuta in essere ed il confronto dell’uomo con altre specie.

Considerando, nell’insieme, la specie umana come un prodotto del processo evolutivo, si selezionano gli elementi della società umana che appaiono essere comuni a tutte le culture; quindi attingendo alle testimonianze della preistoria dell’uomo, si tenta di scoprire i tipi di pressione selettiva che hanno agito sui nostri progenitori primati e preumani per generare tali elementi costanti.  Sembra, per esempio, che i nostri lontani antenati si siano evoluti, sia nel corpo sia nel comportamento, in relazione a un tipo di vita vegetariana condotta nella foresta.  A un certo punto nel corso dell’evoluzione essi si spostarono in un habitat di aperta savana, con una economia basata in parte sul consumo della carne.  Questo significò che, per poter competere con carnivori ben attrezzati, che stavano già sfruttando tale nicchia ecologica, il preominide in evoluzione dovette far ricorso alle capacità che possedeva e indirizzarle verso nuovi scopi.  L’interesse del primate nel manipolare gli oggetti, e la sua rudimentale capacità di usare utensili (che può essere riscontrata negli attuali scimpanzé) si svilupparono in una più sofisticata tecnologia dell’utensile e dell’arma.  L’attitudine del primate al rapporto sociale e all’organizzazione fu incanalata e disciplinata: si formarono gruppi cooperanti nella caccia, si diffusero le abitudini di spartire il cibo e di dividere il lavoro, abitudini che erano essenziali per il nuovo, modo di vita.

Se guardiamo all’umanità dal punto di vista comparativo, come una specie tra molte, essa rivela certe diffuse uniformità che derivano dal processo di evoluzione. Per lo zoologo, includere l’homo sapiens tra le specie che studia è semplicemente una questione di completezza. Egli trova insoddisfacente e improprio trascurare un’unica specie, solo perché gli capita di appartenerle. Per l’antropologo, che analizza la società e la cultura umana, le amplificazioni di un approccio biologico comparativo possono giungere ancora più lontano. Tale è la diversità delle istituzioni umane nel mondo, che l’antropologo, immerso nei dettagli di particolari comunità e nelle loro variazioni, è portato a considerare la società umana stessa come totalmente arbitraria. Però una prospettiva biologica comparativa ci aprirà gli occhi sugli elementi costanti della società umana. E si contrapporrà al nostro abituale disorientamento di fronte alla multiforme varietà di essa. Un’nterpretazione biologica dovrebbe cominciare con l’esplorare la tendenza, generale tra i primati, specialmente tra le scimmie, a riunirsi in sottogruppi, i cui membri, se da un lato entrano in competizione per il rango, dall’altro cooperano in modo importante. Questa tendenza all’unione sembra avere un notevole valore per la sopravvivenza dei gruppo poiché mantiene e difende l’ordine all’interno. Quando i primati divennero cacciatori, questa tendenza a riunirsi probabilmente costituì la base dei gruppi cooperanti nella caccia.

Altri esempi della fondamentale uniformità, forse biologica, che sta alla base di tutte le culture, si possono incontrare nei rituali familiari della vita quotidiana. Per esempio i modi di salutare variano enormemente da quelli più formali a quelli più intimi, ma la loro stessa prevalenza suggerisce una sorta di predisposizione biologica.  E qualcosa di simile al saluto si riscontra nella maggior parte dei primati non umani, e così anche in molti altri animali.  Tutti conosciamo il comportamento abituale di saluto del cane.  Sembra probabile che tra gli animali sociali il saluto possa essersi evolutivamente sviluppato come un modo per mantenere e consolidare la struttura sociale e anche per esprimere fatti importanti concernenti il rapporto tra i singoli, come il loro rango relativo, quando si incontrano.

Si badi però che le ipotesi biologiche basate sulla comparazione non escludono né sostituiscono in nessun caso altri tipi di spiegazione.  Molti fra coloro, che hanno scritto a proposito dei legami tra il comportamento animale e quello umano hanno, troppo insistito sui paragoni animali nelle loro spiegazioni delle questioni umane.  Possa o non possa l’homo sapiens essere compreso tra le specie, che reagiscono all’imperativo territoriale, il nazionalismo, per esempio, non è riducibile all’istinto territoriale.

L’etologia esiste come scienza solo dal nostro secolo. Trae la sua impalcatura teorica dalla biologia postdarwiniana, della quale è un ramo.  Gli etologi tendono automaticamente a ricercare le spiegazioni di ciò che osservano secondo le tradizionali linee darwiniane di funzione, causalità e sopravvivenza. Questo significa che gli etologi in passato hanno concentrato la loro attenzione su specie animali come insetti, pesci e uccelli il cui comportamento è relativamente fisso o genericamente determinato. Quando si sono indirizzati verso animali il cui comportamento è più complesso e dipendente dall’apprendimento individuale, hanno spesso isolato modelli di comportamento evidenziando i sistemi attraverso i quali gli animali comunicano i loro stati d’animo e intenzioni a un altro, nel tentativo di dimostrare la presenza di un elemento di determinazione genetica.

Quando gli etologi hanno tentato di applicare le loro tecniche al comportamento sociale umano questa abitudine di concentrarsi prima sul comportamento individuale e poi su quegli atti che sono innati ha portato a risultati abbastanza deludenti.  Troppo spesso la ricerca è degenerata in una confusione abbastanza inutile sul problema se vi siano o meno degli istinti nell’uomo. Ora sarebbe molto sorprendente se l’uomo non possedesse alcuna traccia comportamentale della sua ascendenza di primate. È quasi fuori di dubbio che certi elementi di comunicazione umana non-verbale (atteggiamenti, gesti, espressioni del viso) sono innati pur subendo delle interferenze culturali. E tra gli animali è frequente scoprire che un singolo animale presenta uno stimolo che fa scattare un’automatica, spontanea reazione in un altro.  Questa è una buona ragione per credere che gli esseri umani possiedono parecchie di queste reazioni innate. La combinazione di una forma arrotondata, per esempio, con una testa grande rispetto al corpo e con un piccolo viso, e goffi movimenti suggeriscono immediatamente all’occhio umano il “cucciolo”, sia questo un bambino od un gattino, e di solito suscita reazioni paterne e protettive.

Sembra dunque che vi siano continuità tra il comportamento umano o quello animale.  L’indicare dove queste si trovino ha tradizionalmente rappresentato il limite del contributo degli etologi allo studio dell’uomo. La Callan ritiene che per quanto questi confronti chiariscano il comportamento umano, a meno che l’analisi non sia spinta più avanti, sono di limitato interesse per la conoscenza della società umana.

Si è verificata recentemente una virtuale rivoluzione nell’etologia che ha suscitato capacità e entusiasmo per l’analisi dei sistemi sociali. Dovendo affrontare la complessità della società dei primati, l’etologo ha dovuto adottare concetti più sofisticati di quello del solo comportamento. Ci sono tre fenomeni connessi alla tradizione, alla parentela, e alla politica che sono da loro considerati le fondamenta della società umana. Ognuno di questi è stato riscontrato in ogni modo anche tra i primati non umani.

Molti animali hanno una tradizione di informazioni sulle condizioni locali che viene trasmessa da una generazione all’altra. Le cornacchie insegnano ai piccoli a evitare i predatori e persino a riconoscere i cacciatori locali. Ma è quello che è avvenuto tra le scimmie giapponesi dell’isola di Koshima a risultare di estremo interesse dato che testimonia il passaggio di un elemento di innovazione alla tradizione. Questo gruppo selvatico di scimmie è stato studiato per molti anni. Nel 1952 il primatologo cominciò a spargere patate dolci sulla spiaggia e, una femmina giovane inventò la tecnica di lavare le patate per togliere la sabbia prima di mangiarle. Diventò un’abitudine che si diffuse per tutto il gruppo, così che questa è ora una caratteristica di quel gruppo particolare.

Qualcosa di ancor più interessante accade tra le scimmie di Giava (che si nutrono di granchi) che sono state studiate in uno zoo-colonia.  Non soltanto il loro rango dipende in larga misura dalla parentela, ma anche l’aiuto che una scimmia può ricevere in un combattimento o in un confronto, è un diretto riflesso di questi legami di parentela. Ciò è sicuramente il principio dell’organizzazione politica; i legami di parentela in un gruppo di scimmie acquistano una funzione politica nella risoluzione dei conflitti. Se questa sia o no una caratteristica generale nella vita dei primati, ancora non è chiaro. Le gerarchie di dominanza, l’ordine di precedenza nel cibarsi, sono da tempo conosciute in molti differenti tipi di animali.  La gallina è l'esempio classico: ogni singola gallina del cortile sa perfettamente chi può beccarla impunemente e chi può beccare a sua volta; ciò significa che galline diverse hanno un diverso diritto al cibo, allo spazio e spesso alla sopravvivenza.

Una volta si pensava che l’ordine o il rango scaturisse solamente dal comportamento aggressivo. Si predisponevano esperimenti nei quali due animali venivano posti in un confronto competitivo per vedere chi vinceva. Ma studi recenti sulle società dei primati hanno tuttavia rivelato che la situazione è infinitamente più complessa.  Benché la ricerca aggressiva del rango esista, specialmente tra i babbuini e altre scimmie, vi sono, in alcune specie, forze che tengono unito il gruppo per mezzo dell’attrazione che gli animali dominanti esercitano nei confronti di altri. Ogni animale ha la costante consapevolezza del comportamento degli “individui chiave” dall’inizio alla fine della giornata e coordina i suoi movimenti con loro.  Il comando nasce non come un risultato del tiranneggiare, ma come logica conseguenza di questa “struttura di attenzione”, come è stata chiamata. Lo status sociale può essere raggiunto mostrando di utilizzare questo tipo di attenzione e con l’abile manipolazione dei rapporti.  Si tratta di un processo schiettamente politico e costituisce una spiegazione molto più interessante della vecchia teoria della dominanza e della potenzialità aggressiva individuale. Per predisporre una qualsiasi manovra sociale, la scimmia deve soppesare un certo numero di fattori: dove sono le scimmie dominanti e dove sono i loro amici; di che umore sono; c’è la probabilità che siano disturbati dalla sua manovra; oppure potrebbe essere possibile anche sfruttare una scimmia dominante avvicinandosi e da questa posizione minacciare un rivale che non osa ritorcere la minaccia? Se le indicazioni dicono che potrebbe essere scoperta, la nostra scimmia deve reprimere il suo impulso per quanto forte esso sia.  Si aggiungano le alleanze basate sulle amicizie individuali e sulla parentela e si vedrà che per emergere in questo tipo di società la scimmia deve comportarsi proprio come un sottilissimo operatore politico.

Sarebbe tuttavia errato concludere che, poiché la società tipica dei primati è gerarchica, la vita sociale dei primati sia aggressiva, competitiva e volta solo allo sfruttamento del prestigio. Se ne trarrebbe una descrizione della società delle scimmie completamente inadeguata e un altrettanto inadeguato “modello biologico” della vita sociale umana5 . Le società delle scimmie sono tipicamente politiche e ciò contiene un paradosso interessante per lo studio dell’uomo. Consideriamo ciò che i primati non-umani non fanno nella vita in natura. Siamo così abituati a pensare alle scimmie come esseri quasi umani che sorprende constatare che tra loro, in condizioni naturali, non si riscontrano certi tipi di comportamento adattativo, apparentemente molto elementari. I primati a differenza dell’uomo non dividono il cibo, nemmeno con i loro piccoli, non accumulano alimenti, non costruiscono ripari (salvo le piattaforme provvisorie per passare la notte costruite dai primati antropomorfi). La maggior parte degli uccelli sa fare di meglio. Le scimmie non possiedono una vera tecnologia.  Sebbene gli scimpanzé selvatici preparino e usino bastoncini per sondare i nidi delle termiti, ciò non è molto in confronto a quanto gli stessi animali arrivano a fare in cattività. Questo è il punto: in cattività le scimmie acquisiscono destrezza e rivelano capacità per le quali non esiste una ovvia funzione in natura: possono fare molto di più di quanto effettivamente fanno. Probabilmente la spiegazione più interessante del perché ciò avvenga è l’potesi che è stata la stessa natura complessa della società dei primati a stimolare l’evoluzione della loro capacità inventiva. L’intelligenza del primate non è per nulla rivolta all’applicazione tecnica, ma può essere usata come adattamento secondario per compiere complessi compiti tecnici.  Lo dimostrano le imprese compiute dalle scimmie in cattività. Si estenda l’potesi, è quanto accadde nell’evoluzione umana: dobbiamo la nostra padronanza dell’ambiente fisico alle realizzazioni sociali dei nostri antenati pre-umani. Ci si accorge immediatamente quanto sia sorprendente quest’idea. Presumendo che l’uomo sia derivato da un primate, le cui abitudini assomiglino a quelle delle scimmie attuali, il grande cervello, responsabile di ogni realizzazione umana, si sviluppò prima di tutto in risposta alle pressioni provenienti dall’interno della società, e in modo particolare dalla natura politica di quella società.

Cerchiamo di tirare le conclusioni. Per molti anni l’etologia ha offerto alternative al concetto di tabula rasa come radice del comportamento umano (il concetto che considera la mente infantile come una lavagna vuota sulla quale qualsiasi cosa conforme alle leggi dell’apprendimento poteva essere scritto). Gli etologi hanno fondatamente rilevato che sul terreno biologico sarebbe stato molto sorprendente se così fosse. Hanno presentato buone ragioni per dire che certi elementi del comportamento sociale umano sono paragonabili a quelli di altri animali, che sono geneticamente influenzati e che si sono formati come risultato di un meccanismo di evoluzione. In questo modo è stata individuata sia la presenza di elementi innati aggressivi che cooperativi entrambi funzionali alla sopravvivenza della specie in un ambiente naturale che di per se risulta aspro e duro. In seguito gli etologi hanno cominciato a fare qualcosa di più eccitante: hanno analizzato i sistemi sociali negli animali. Nel farlo hanno sempre propeso a voler spiegare le similitudini fra il mondo animale e quello umano sostenendo, in sostanza, che la società è ben lungi dall’essere nettamente distinta dalla natura, ma ne è parte. La biologia e la società confluirebbero l’una nell’altra e la vecchia distinzione fra natura e cultura sarebbe, a questo punto, meno rigida.

Fino ad un certo punto, tutto bene. Cioè, bene sottolineare come meccanismi comuni sottendano processi di socializzazione in moltissime specie animali, quella umana compresa, ma perché negare il valore filosofico di questo. Perché, insomma, non interpretare anche i processi di socializzazione ed organizzazione politica del mondo animale come una sorta di processo di fuga dalla natura quando questi sono necessari al sopravvivere ad una natura satolla di asperità? L’universo è un complesso casuale, moralmente neutro ma dall’immane violenza. Gli animali vi sopravvivono senza coscienza l’uomo lo giudica e lo trova profondamente ingiusto. 
 

IL GOVERNO PRIMITIVO 

L’organizzazione politica delle società umane ha assunto diverse forme ed avuto diverse nature. Solitamente il sistema di parentela gioca un ruolo importante, specialmente nelle società preletterate. Ugualmente importante risulta la coresidenza.

I gruppi locali sono la forma più elementare di società. È necessaria la presenza di un aggregato di individui che condividano una residenza, una cultura ed una tradizione associativa piacevole. Non è necessariamente un’unità politica poiché per averla è necessaria la presenza di leader le cui funzioni siano quelle di tutelare la pace interna, organizzare e dirigere le imprese della comunità, guidare le eventuali operazioni belliche. L’organizzazione politica rappresenta un’unità superiore a quella imposta dalla parentela. Questa, infatti, si fonda sull’alleanza di gruppi di parentela che si trovano nella necessità di cooperare strettamente.

Alcune funzioni politiche sono presenti in qualsiasi società ma quelle più semplici sono coperte dalle istituzioni come la parentela o le istituzioni religiose.

Gli studi antropologici hanno evidenziato tre tipi fondamentali di società.

Come sopra detto il primo di questi è il gruppo locale privo di un sistema di leadership continuativo sovrafamigliare. Queste sono società piccole, disperse su vaste aspre aree, si basano su un’economia di sussistenza data la tecnologia poco sofisticata di cui dispongono, non conoscono alcuna forma di guerra organizzata, conoscono le funzioni politiche ma non mantengono specifiche strutture.

Abbiamo poi le bande. Risultano essere la forma più elementare di organizzazione politica ed, infatti, altro non sono che un gruppo locale a cui si sovrappone uno stabile sistema di leadership. Tribù e confederazioni sono le organizzazioni superiori a cui le bande possono dare luogo. Sono queste le forme politiche più frequenti delle popolazioni preletterate. Queste società sono estranee alla guerra di conquista che  implica la sottomissione e lo sfruttamento dei vinti. Le guerre risultano delle forme di incursione il cui scopo è un bottino, il prestigio, lo sterminio per vendetta o l’espulsione dal territorio del nemico. L’economia continua ad essere di sussistenza ma i leader sono di tipo carismatico secondo le tipologie weberiane.

Vi sono, infine, gli stati conquistatori. Per questi la guerra ha una funzione prettamente economica. Grazie ad un adeguato livello tecnico l’economia emancipa queste società dalla sussistenza e produce surplus. I leader godono del diritto riconosciuto ed esclusivo che prevede, ad esempio, il monopolio della violenza.

Max Gluckman scrive ne “Il governo primitivo” che il sistema politico più semplice si instaura laddove un uomo, in virtù del proprio ascendente personale, diventa l’autorità riconosciuta di un piccolo gruppo di cacciatori, di pescatori, o di raccoglitori dei prodotti spontanei del suolo. Troviamo questo tipo di leadership anche tra alcuni agricoltori: è particolarmente comune nei nuclei relativamente poco popolosi della Melanesia, che vivono coltivando, in particolare patate dolci, e allevando maiali.

Gli etnoantropologi hanno studiato molte tribù di cacciatori e di pescatori. Quando gli etnoantropologi vennero a contatto per la prima volta con i Boscimani6 dell’Africa meridionale questi erano confinati nelle più aride regioni occidentali del territorio: la Namibia (Africa del Sud-Ovest) e l’Angola, il deserto del Kalahari7 . In precedenza erano stati sparsi da un capo all’altro dell’Africa meridionale, dove avevano lasciato molti dei loro stupendi dipinti su roccia, finché il gruppo Nguni, uno dei popoli di lingua bantu, li aveva cacciati dalle terre più fertili, sterminandoli. Oggi i Boscimani vagano per terre sterili, gli uomini cacciando, le donne raccogliendo radici e vegetali8 . Ogni gruppo, che conta da dieci fino a venti uomini, generalmente legati gli uni agli altri da rapporti di discendenza o familiari, rivendica un determinato territorio, anche se su larga scala i confini non sono affatto chiaramente tracciati: nel 1942 un commissario distrettuale inglese si trovò a dover tentare di comporre una disputa sorta, a causa di un territorio di caccia, tra gruppi rivali della regione del fiume Mashi, le cui basi di partenza si trovavano a 160 chilometri di distanza. Secondo l’ideologia dei Boscimani, che è condivisa da altri cacciatori, quali gli aborigeni australiani, i legami ancestrali con la terra impediscono a un gruppo di conquistare il territorio di un altro. Ciò nonostante, occorre battersi per i territori di caccia, che devono essere difesi dalle invasioni dei pastori ottentotti e delle popolazioni di lingua bantu, con i loro drappelli di cacciatori, il loro bestiame, e i loro orti. Nei gruppi di Boscimani che sono generalmente imparentati tra loro, l’autorità è esercitata dal maschio più anziano della famiglia, se possiede le qualità adatte. Ma all’interno di ciascun gruppo non esiste alcun governo effettivo, alcuna autorità formale, alcun sistema di leggi e di punizioni. Il singolo ripara i suoi torti in privato, per minimi che siano, e solo in casi estremi si serve della violenza che è temuta e disapprovata da questo popolo sorprendentemente pacifico e cortese soprattutto se si pensa al tragico passato e alle attuali durissime condizioni di vita in cui versa. Gli uomini vanno, da soli o in piccoli gruppi, in direzioni diverse in cerca di selvaggina. Alcuni possono trovarla, altri no. Ed è caratteristico dei cacciatori e dei pescatori che colui il quale ha catturato oggi della selvaggina, la divida con il resto del gruppo, perché sa che domani toccherà a lui essere riconoscente a qualcun altro del cibo che gli avrà procacciato9 . Questa pratica risulta essere una forma di assicurazione contro la fame, le malattie e le disgrazie. Nelle società che hanno istituzioni più semplici, meno differenziate, vige la mutua ospitalità e lo scambio di doni, attraverso i legami familiari e matrimoniali, o attraverso l’amicizia, l’associazione commerciale o la fratellanza di sangue. La vita in un gruppo di cacciatori costringe a questo tipo di partecipazione, e tutte le liti al suo interno devono essere composte rapidamente. I Boscimani quindi oggi risolvono le loro liti per mezzo di quello che essi chiamano “duello verbale”10 . L'offeso espone le sue rimostranze, e l’accusato si discolpa davanti all’intero gruppo, che ascolta ed emette il suo giudizio. Questi “duelli verbali” sono costantemente accompagnati da un torrente di pettegolezzi e di notizie scandalistiche che fanno il giro di tutti i membri del gruppo11 .

Il “duello verbale” è un’istituzione simile alla “sfida canora” degli Esquimesi dell’Artico e della Groenlandia. Anche gli Esquimesi, come gli altri cacciatori, devono andare in cerca del loro cibo in molte direzioni sulla terra ferma tra i ghiacci e per mare.  Per distrarsi nelle lunghe notti dell’inverno polare, gli uomini si sfidano a una gara di canzoni argute e spiritose, cui segue una grande festa.  Le gare sono accompagnate da uno scambio di doni tra gruppi limitrofi di cacciatori, soprattutto quando un gruppo porta prede dalla costa e l’altro dall’interno. In queste occasioni ogni contendente deve superare l’altro in generosità, e contemporaneamente batterlo in arguzia. E quando un uomo si ritiene offeso, sfida l’offensore ad una gara, introducendo in essa una storia composta da affermazioni iperboliche, possibilmente assurde, al fine di raffigurare i particolari dell’offesa arrecatagli dal suo contendente.  Secondo le regole del gioco, il contendente che lascia capire come le affermazioni, gli insulti, o gli sberleffi abbiano colto nel segno, viene dichiarato perdente. In tutto ciò gli spettatori hanno una parte importante. Applaudono gli scherni del querelante se sono convinti che egli abbia ragione. e indicano all’offensore che ha perso il confronto perché ha sbagliato. La festa seguente si prefigge di cementare l’amicizia tra i due litiganti. Gli eschimesi polari hanno solamente due unità sociali: la famiglia e il villaggio invernale. Non ci sono le condizioni sufficienti allo sviluppo della leadership anche se in casi eccezionali ci si appella all’autorità dello sciamano che comunque rimane limitata. L’esercizio della leadership rimane nell’ambito della famiglia ed é appannaggio sia del marito che della moglie secondo le sfere di competenza e gli ambiti d’attività.

In Australia  i Kariera sono organizzati in orde. L’orda è composta da settantacinque individui ed è in pratica una famiglia congiunta composta da famiglie nucleari imparentate in linea paterna. I leader dell’orda sono i membri anziani ma l’ordine pubblico viene mantenuto dall’opinione pubblica che fa leva sul senso del prestigio di cui ogni individuo è dotato. In casi estremi si registra la morte per vendetta privata ma più frequentemente si applica l’esilio che, poiché è credenza che abbandonare per un lungo periodo la propria terra causi la morte eterna impedendo la reincarnazione, risulta la pena più grave. Ogni orda controlla un territorio su cui vaga e il cui accesso non è consentito ad altre senza permesso. Le liti fra orde sono frequenti ma rari sono i combattimenti che comunque rimangono relegati alle persone direttamente implicate. Si tratta soprattutto di piccole incursioni più chiassose ed infamanti che violente.

Anche presso alcuni popoli del Kenya un uomo che venisse giudicato dagli anziani recidivo nel trasgredire le leggi della tribù e nel turbare la pace, se i parenti acconsentono e si uniscono alla cerimonia, può subire una sentenza di espulsione dalla tribù. Quando gli Esquimesi della costa e quelli dell’interno vanno a caccia, quando cercano di superarsi in generosità e si scambiano i prodotti della pesca con quelli della caccia, per reciproca convenienza, lo scopo dello scambio non è tanto il massimo profitto, cosa che in effetti considerano disonorevole, quanto il prestigio. Ed è su un’alta considerazione del prestigio personale che si basano la continuità delle leggi e l’adempimento degli obblighi reciproci tra molti singoli e gruppi in molte parti del mondo.

Sugli altipiani della Nuova Guinea per esempio, gruppi di gente sì scambiano conchiglie, pelli di uccello, asce di pietra e molti altri oggetti nel corso di una grande festa, il cui pezzo forte è un maiale.  Le numerose mogli del “personaggio importante” coltivano patate dolci per ingrassare i suoi maiali, che egli presta agli uomini più giovani della tribù . In questo modo egli tesse una ragnatela di crediti che riscuoterà quando inviterà un altro “personaggio importante” e il suo seguito a un ricevimento.  In alcune tribù vige la proibizione, sotto minaccia di severe sanzioni, di mangiare la carne di un maiale che sia stato allevato da voi stessi, o da un vostro parente stretto.  Se qualcuno ha davvero l’intenzione di mangiare carne di maiale deve avere degli amici o dei compagni in un altro gruppo limitrofo, con i quali poter scambiare i maiali.  Il divieto è divenuto il fondamento stesso dell’ordine interno, di una pace diffusa e del commercio intertribale. Il “personaggio importante” riscuote i suoi crediti nel corso di una grande festa tra le tribù, durante la quale altri uomini danno festini di minore importanza. Gli invitati, appartenenti a popoli periodicamente in guerra con i loro ospiti, giungono abbigliati per l’occasione e recando dei doni. Durante il pacifico convivio, sorta di tregua temporanea, vengono scambiati molti prodotti. Mediante queste tregue di vitale importanza il “personaggio importante” di ogni tribù può non solo rendere più sicura la pace banchettando con il nemico, ma anche salvaguardare il proprio prestigio nei confronti della sua tribù, prestigio sul quale si basano la sua influenza, il suo potere e la sua autorità nel comporre le controversie interne. Il suo regno benché effimero, dura fino a che non è troppo vecchio per lavorare o per incrementare la sua rete di crediti.

In queste società gli uomini assumono ruoli che sono sempre peculiari: la loro autorità è fondata sulle loro qualità personali. Tuttavia, dato che la posizione di comando non può mai restare vacante, esiste l’investimento di autorità, al quale tutti i membri del gruppo possono accedere.

Retta da anziani, la gerontocrazia è una forma di autorità più complessa di quella basata sugli “uomini influenti”, anche se non tutte le società passano dall’uno all’altro stadio di sviluppo. Tra gli aborigeni australiani, che sono anche cacciatori e raccoglitori di cibo, sono gli anziani a regolare i matrimoni e ad avere l’autorità di dare ordini ai più giovani e di risolvere le controversie. Esistono forme di gerontocrazia anche tra le popolazioni di pastori e le tribù contadine dell’Africa orientale, presso le quali i maschi, come accade agli aborigeni australiani, vengono sottoposti a severi riti iniziatici, che affrontano divisi in gruppi d’età  che coprono un arco di circa 15 anni. I gruppi d’età si suddividono in giovani, guerrieri e anziani. Ogni 15 anni c’è una grande cerimonia durante la quale gli anziani si ritirano, i guerrieri diventano anziani e possono sposarsi, e i giovani diventano guerrieri, con la responsabilità di compiere razzie di bestiame e di difendere la tribù. Gli anziani della tribù dei Samburu ripetono periodicamente la simbolica cerimonia d’iniziazione dei guerrieri, per rinnovare l’accettazione dei divieti e delle rinunce richieste dal loro stato. Perché quando un guerriero entra a far parte degli anziani ci si attende che modifichi completamente il suo comportamento. Da esuberante, eccitabile e rissoso deve diventare pacifico, dignitoso e compassato; disposto più a ristabilire l’ordine che a provocare disordine.

Le società guerriere degli Cheyenne e di altre tribù indiane dell’America settentrionale, prima della colonizzazione occidentale, pretendono una trasformazione non dissimile del modo di comportarsi dell’uomo che cessa di essere un guerriero e diventa un capo in tempo di pace. Gli Cheyenne vivono in clan matrilineari, che nell’inverno della prateria devono dividersi in piccoli gruppi per trovare riparo, mentre d’estate si radunano in un unico accampamento per cacciare il bisonte, e allora gli uomini devono partire e raggiungere sei società guerriere (gruppi di guerrieri). In cinque di questi gruppi, che contano membri provenienti da ciascun gruppo, i guerrieri con funzioni di comando svolgono compiti di polizia e giudiziari. Controllano la caccia al bisonte, punendo tutti coloro che attaccano le mandrie prima del segnale di assalto generale, arrestano e processano chi viola la legge, e aggiornano la legislazione per affrontare circostanze nuove. Nelle società guerriere, dato che i membri provengono da gruppi diversi, l’insieme delle norme legali ed etiche era fatto rispettare e resta in vigore grazie a un intricato groviglio di legami e di doveri. Da un guerriero ci si aspetta che fosse coraggioso, pronto nel partire all’offensiva. Se diventa troppo turbolento, solitamente lo si neutralizza promuovendolo “Capo del Tempo di Pace” e trasferendolo al sesto gruppo dei quarantaquattro Capi del Tempo di Pace, provenienti da tutte le bande indiane. I Capi del Tempo di Pace esercitano il loro controllo sull’accampamento e si prendono cura dei misteriosi simboli sacri dell’unità della tribù, in particolare dell’altare del “Copricapo Sacro” e delle “Frecce del Sacro Feticcio”. Se uno Cheyenne ne uccide un altro, le Frecce del Sacro Feticcio ne rimangono contaminate; allora l’assassino deve essere espulso dalla tribù e le Frecce sostituite: in caso contrario l’intera terra comincerebbe a puzzare e verrebbe disertata dalla selvaggina. Le Frecce Sacre e il Sacro Copricapo, che sono propri della cultura Cheyenne, sono rappresentativi di una intera serie di simboli misteriosi, che a volte comprendono anche il popolo, e dai quali si crede debba dipendere il benessere della tribù. I simboli rappresentano l’interesse del gruppo alla pace e alla prosperità, resa possibile dall’osservanza della legge. I Capi del Tempo di Pace, scelti a rappresentare i simboli, traggono da loro l’autorità necessaria per far rispettare la legge.

Gli Andamanesi del Golfo del Bengala sono organizzati in villaggi di quaranta-cinquanta persone liberamente associate. I leader sono tali per la loro riconosciuta capacità, ma il controllo sociale viene esercitato dall’opinione pubblica che denigra il pigro, l’irrispettoso ed il litigioso. Per i reati gravi si registra la vendetta privata e l’esilio. Se in una riunione tra villaggi diversi avviene una lite particolarmente violenta può scoppiare una guerra che viene guidata da un leader seguito da pochi seguaci in un’incursione notturna che cessa nel momento in cui uno degli attaccanti muore. Anche per i nativi-americani Crow il leader non è vittorioso se la sua schiera non torna intatta dall’incursione notturna. I capi formano il consiglio della banda e uno di loro, un anziano, viene scelto come sommo capo. La sua autorità non è affatto assoluta: deve, infatti, persuadere ed influire più che comandare.

I rapporti tra i gruppi sono di importanza fondamentale nelle società sia prima sia dopo lo sviluppo di istituzioni governative. I gruppi non possono entrare in conflitto fra di loro fino alle estreme conseguenze, anche se si lasciano coinvolgere in storie di vendette e di faide, poiché i loro membri tendono a essere imparentati. In molte tribù il matrimonio tra parenti stretti è vietato, così ogni uomo o donna viene a essere imparentato, per mezzo del matrimonio, a un gruppo diverso dal proprio, attraverso la madre, il padre, il nonno o un figlio. Ci sono sempre alcuni membri, in un gruppo impegnato in una vendetta, che hanno interesse a salvaguardare la pace. Alcuni di questi, magari imparentati con entrambi i gruppi, possono riuscire a fare da pacieri e hanno il potere, in mancanza di un’autorità costituita, di imporre il rispetto della legge.

I Samoani della Polinesia contano circa 50.000 persone e vivono In 1200 miglia quadrate di mare. La pesca e l’agricoltura permettono un’abbondante produzione. Si registra un alto grado di integrazione fra villaggi sia della stessa isola che di isole diverse. La casata è l’unità di parentela principale e corrisponde ad una grande famiglia estesa di circa cinquanta membri. Ogni casata elegge un capo che rimane in carica fino a quando gode della fiducia dei parenti. Dieci casate formano un villaggio che controlla un territorio, zone di pesca e una casa comunitaria. Ogni villaggio è presieduto da un capo ed un consiglio. Le decisioni del consiglio non avvengono per votazione ma ogni suo nobile rappresentante ha prerogativa su una determinata sfera di interesse pubblico. Ogni villaggio aderisce autonomamente ad un distretto e manca il bisogno reale di stabilire una duratura unione fra i distretti affinché si formi una nazione.

La lega degli Irochesi, un tempo insediati nell’attuale stato si New York, negli Stati Uniti, è un fulgido esempio di confederazione. Viene fondata nel 157O da Hiawata e da Dekanawida tribù separate, ma dotate di una comune cultura, inizialmente nel numero di cinque (se ne aggiunge una sesta nel 1715) probabilmente sotto la pressione della guerra. Un consiglio che si riunisce annualmente e in cui vige il principio dell’unanimità la presiede. L’economia è basata sull’agricoltura, la pesca e la caccia ma non produce surplus e questo spiega il perché non sia sorta un’entità statale vera e propria.

Stati dotati di istituzioni governative centralizzate, come nelle società occidentali moderne, se ne sono trovati in molte parti dell’Africa e in Indonesia, ed esistevano tra i Maya, gli Inca e gli Aztechi. In queste società c’erano re o capi con una gerarchia ben stabilita di funzionari dai poteri riconosciuti, sostenuti dalla polizia o dall’esercito, con funzioni definite: amministrativa, esecutiva, legislativa, giudiziaria e, poiché colui che governava controllava spesso anche la pietà religiosa verso gli antenati o verso la divinità, anche ecclesiastica. Comunque, un funzionario poteva occupare molte cariche, poiché i limiti dell’autorità erano definiti meno chiaramente che negli stati moderni. La complessità delle organizzazioni statali dipendeva dallo sviluppo tecnologico. C’erano stati nei quali il capo e i suoi familiari mantenevano all’incirca lo stesso tenore di vita dei sudditi, e si sposavano con loro; ma presso i Maya, gli Aztechi e gli Inca, e in alcune zone dell’Africa, vennero costruite delle città di pietra che segnavano la distanza tra signori e sudditi. In queste città funzionavano tribunali speciali.  Uno studio di questi tribunali esistenti presso i Barotse ci mostra come essi operino pressappoco allo stesso modo dei nostri tribunali occidentali, anche se in un contesto sociale molto diverso. I tribunali dei Barotse prestano ascolto agli argomenti della difesa e dell’accusa, convocano i testimoni, classificano le prove come dirette, indiziarie o semplici dicerie. Quindi le prove ritenute tali vengono considerate “verità provate dalla legge” sulle quali si possono di conseguenza fondare le sentenze adducendo argomenti simili a quelli usati dai giudici occidentali.  Procedura, norme e prove sostanzialmente simili vengono usate anche dai tribunali non ufficiali (assemblee) di tribù meno istituzionalizzate. All’interno dell’organizzazione governativa si verificano delle lotte per il controllo del potere giudiziario come delle altre forme di potere.  Esistono tanto dei tiranni quanto dei governanti equanimi. Col sostegno della polizia o dell’esercito un governante potrebbe, lo desiderasse, abbandonarsi all’oppressione e al terrore più completi, usare violenza alle donne, uccidere indiscriminatamente. Ma finché non esistettero risorse materiali tali da consentire ai governanti di mantenere un livello di vita molto diverso da quello dei loro sudditi, queste guerre civili non assunsero mai carattere di rivoluzione completa, né mirarono mai a mutare l’organizzazione politica fondamentale.

Anche se si è venuti a conoscenza di lotte politiche nell’Africa occidentale, così come tra i Maya (indicate come una delle possibili cause della decadenza dell’impero nel decimo sec. d. C.), le lotte per il controllo dello stato avvenivano usualmente tra le opposte fazioni della classe dominante. L’impero Aztzco rivela nella sua struttura tracce di un precedente ordine tribale sviluppatosi in seguito al superamento di un’economia di pura sussistenza ad una capace di produrre eccedenze, ma è il caso dell’impero Inca del Perù a risultare particolarmente esemplificativo.

Presso gli Inca la presenza di un’aristocrazia feudale ereditaria è di gran lunga più accentuata. All’epoca della conquista spagnola l’impero si estende dalla Colombia meridionale al centro del Cile, dal Pacifico alle sponde occidentali del Rio delle Amazzoni, in Brasile. La società è divisa in quattro classi principali: l’aristocrazia dominante composta dall’imperatore e dai suoi parenti ritenuti discendenti più o meno diretti del dio Sole; i curaca, ossia i nobili degli stati conquistati ed i loro discendenti; i puric, la classe popolare; ed, infine, i yanacuna (uomini) ed acllacuna (donne), una classe di artigiani e di servi al servizio dell’aristocrazia. L’appartenenza ad una classe, tranne nel caso di adozione, dipende esclusivamente dalla nascita. I puric sono la classe più numerosa e formano l’ossatura economica dello stato. La loro vita è strettamente controllata dalla legge: ciascuno prendendo moglie all’epoca stabilita riceve un appezzamento di terra da coltivare per l’autosostentamento (viene accresciuta proporzionalmente all’allargamento della famiglia); le imposte vengono saldate  attraverso prestazioni d’opera lavorando, in periodi stabiliti, direttamente per lo stato; nessuno può lasciare la sua comunità senza il preciso ordine dello stato; i loro vestiti, disegnati da funzionari statali, indicano attraverso specifici simboli la comunità d’origine e lo status sociale; quando il loro numero aumenta vengono inglobati nelle classi yanacuna ed acllacuna o deportati per colonizzare le nuove terre conquistate. L’imperatore oltre che essere l’estrema autorità politica è anche proprietario di tutte le terre dell’impero, ha potere di vita e di morte su chiunque, è comandante supremo dell’esercito, supremo giudice, sommo sacerdote, ed egli stesso un dio. Quattro viceré, parenti stretti dell’imperatore, esercitano la loro autorità nei quattro settori in cui è diviso l’impero e formano un piccolo consesso, suo organo consultivo. I quattro settori sono suddivisi in provincie, governate da un aristocratico, formate da 40.000 famiglie; le provincie sono a loro volta ripartite in 4 tribù (governate o da un aristocratico o da un curaca) di 10.000 famiglie ciascuna e queste sono ancora divise in unità di 1.000 famiglie. Ogni unità è divisa in 2 metà, composte di 5 centurie ognuna delle quali costituita da 100 famiglie. Infine, la centuria divisa in 2, con ogni metà formata da 5 decurie e i cui capi solitamente sono dei puric. Lo stato Inca conserva il suo sistema rigidamente autoritario attraverso continue guerre di espansione e comincia la sua decadenza dopo aver conquistato tutti i suoi potenziali oppositori disgregandosi completamente all’impatto dell’invasione spagnola del 1531.

Risulta, insomma, chiaro da questa sintetica rassegna, che i sistemi politici più semplici sono comunità essenzialmente democratiche. Il governo è affidato a capi e consigli scelti in base all’età, alla saggezza, e alla capacità di comando. Questi capi tendono a governare più con la persuasione che con la forza ed anzi, molto spesso, l’arma della persuasione è l’unico mezzo messo loro a disposizione dalla comunità che attraverso l’esercizio dell’opinione pubblica mantiene la centralità politica. Quando le società si sviluppano uscendo dall’economia di sussistenza ed iniziano a produrre eccedenze assecondando dei processi di differenziazione sociale che portano gli individui a specializzarsi settorialmente fino alla creazione di élite e di sofisticate leadership collocate in istituzioni stabili ecco che allora, in modo crescente e quasi direttamente proporzionale, queste società si sono dotate di un sostrato statale autoritario, fondato sulla violenza. È lampante il confronto della società dei Boscimani con quella degli Inca. Da una società egualitaria si passa ad una drammaticamente totalitaria, da una pacifica ad una imperialista, dedita ai riti sacrificali umani.

Bisogna certamente stare attenti a non pensare che esista una diretta e precisa equazione differenziazione-diseguaglianza ma ne esiste una stretta relazione che si è evidenziata storicamente. Gli stessi stati occidentali di fronte ad uno sviluppo secolare conoscono la democrazia solo da pochi decenni. Anche le 24 democrazie consolidate, oggi riconosciute dai politologi, che sanciscono l’uguaglianza costituzionale degli individui non hanno certo risolto i problemi della disuguaglianza di fatto che si registra tre gli individui per cause di ordine economico (quando non ancora per le differenze etniche o del genere sessuale) e che dividono la società in classi o strati tra i quali la mobilità sociale ( la possibilità concreta di passare da una classe ad un’altra) è un fenomeno pressoché risibile12 . E tutto questo senza neppure inoltrarci nell’intricato tema del lato oscuro delle democrazie, fatto da servizi segreti e lobby di potere che trovano nelle istituzioni il loro campo di battaglia e nello stato il loro territorio di conquista. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

IL CONFLITTO

(VA AVANTI ANCORA) 
 
 

Nell’illuminante saggio “Aggressività Umana e Conflitto” (Scherer, Abeles, Fischer) viene brillantemente affrontato il problema della violenza umana partendo da un'analisi di tipo fisiologico per svilupparsi in crescendo con un'impostazione psicologica fino a concludersi con una teoria dei grandi sistemi di chiara matrice sociologica. Non abbiamo qui né il tempo né lo spazio per poter illustrare articolatamente il percorso dei tre autori del saggio. Ci limitiamo, perciò, ad utilizzarne alcuni passi ed alcune nozioni che ci possono tornare utili a questo punto di questa breve ricerca.

Uno dei fenomeni, delle manifestazioni umane, che più tendono a farci dubitare di una natura fondamentalmente benigna è sicuramente la guerra. Albert Einstein ne era profondamente impressionato tanto che in seguito alla prima guerra mondiale e un anno prima che Hitler salisse al potere, scrisse una lettera aperta a Sigmund Freud chiedendo e chiedendosi il perché! La risposta di Freud fu molto pessimistica. Lo psicanalista crede, infatti, ad un impulso umano fondamentale verso l’aggressività e verso la distruzione. Chiama questo impulso “istinto di morte” e ritiene che rappresenti una lotta di tutta la materia organica vivente per ritornare ad uno stato inorganico. Se non controllato questo impulso può portare alla morte per autodistruzione dell'organismo. È l’istinto di autoconservazione che vi si oppone ma nel farlo deve canalizzarlo verso il mondo esterno facendolo così risultare nocivo per gli altri. È l’eterna lotta fra Thanatos e Eros!

La teoria si basa essenzialmente su argomentazioni di origine biologica che però non trovano riscontro nella scienza contemporanea ed è per questo motivo che la maggior parte degli psicoanalisti oggi rifiutano la nozione freudiana di istinto di morte, ma utilizzano il concetto di impulso aggressivo primario innato. Sulla base delle loro teorie sull’aggressività come impulso attivo (una sorta di flusso costante di energia aggressiva che deve trovare uno sfogo adeguato) l’uomo dovrebbe trovare degli sfoghi non dannosi. Ad esempio dovrebbe dedicarsi a sport estremamente competitivi. Ma è stato rilevato: quindi un pugile od un giocatore di football americano dovrebbero risultare persone particolarmente docili!?

Anche l’etologia ha tentato di indagare il presunto istinto aggressivo umano. “On Aggression” di Konrad Lorenz è una delle massime opere sull’argomento. Vi si sostiene una sorta di teoria dell’accumulazione dell’energia negativa che abbisogna di valvole di sfogo e viene regolamentata  da meccanismi ( esterni o di carattere fisiologico-comportamentale) che scatenano od inibiscono l’aggressività. In particolare si pone l’attenzione su come i meccanismi inibitori, quali le espressioni del volto, la prostrazione o le forme arrotondate dei bambini, sono vanificati dallo sviluppo delle armi e delle tecniche di guerra più moderne. Di qui la comparsa sulla scena di conflitti armati sempre più crudeli e distruttivi.

Desmond Morris, altro etologo “di grosso calibro”, rispondendo a quanti ritengono che ci siamo evoluti come uccisori specializzati della preda e che automaticamente siamo diventati uccisori-rivali spinti  da un impulso innato a sopprimere il nostro antagonista, sostiene che tutto questo è in realtà contrario all’evidenza. L’animale, infatti, cerca la sconfitta non l’uccisione. Lo scopo dell’aggressività è il predominio, non la distruzione e sotto questo aspetto l’uomo non sembra differire dalle altre specie. È a causa della sfavorevole associazione dell’attacco a distanza e della collaborazione di gruppo (funzionale alla caccia) che il fine originario della lotta è divenuto confuso per gli individui implicati. Adesso loro si attaccano più per sostenere i loro compagni che per dominare i propri nemici e la tendenza innata  ad una pacificazione diretta non ha quasi nessuna possibilità di manifestarsi. Morris trova ironico che la causa fondamentale di tutti i più grandi orrori della guerra sia stata l’evoluzione di un impulso profondamente radicato ad aiutare i nostri simili.

Le teorie etologiche applicate al comportamento umano non sono mai state particolarmente progressiste come ci dimostra l’esempio della bio-sociologia ma anche le stesse teorie di Lorenz e di Morris che nel suo libro “The naked ape” riesce più volte a far sobbalzare sulle sedie psicologi, sociologi ed antropologi. Ciò nonostante questo non significa che l’approcio etologico all’aggressività debba essere del tutto abbandonato. Molte specie animali e, forse, persino l’uomo possiedono alcuni modelli fissi di azione aggressiva istintivi e non appresi, e meccanismi innati di scatenamento e di inibizione dell’aggressività. Tuttavia può essere messo in dubbio che ciò che viene scatenato negli atti aggressivi sia energia aggressiva accumulata in una sorta di serbatoio, o di diga, alimentato da una fonte perpetua. Infatti la produzione scientifica in questo ambito di ricerca ritiene più “economico” postulare che l’aggressività sia reattiva e cioè un prodotto di stimolazioni esterne. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

IL SIGNORE DELLE MOSCHE  
 
 

L’opera di William Goldig fu ispirata da un profondo pessimismo antropologico di cui l’autore era effettivamente pregno. Il libro descrive il progressivo ritorno allo stato selvaggio di un gruppo di ragazzini naufragati su un’isola deserta.

Il gruppo deprivato della guida degli adulti, che muoiono tutti nell’incidente, intraprende l’avventura con spirito; il tutto ha quasi il sapore di una piacevole vacanza: l’isola, infatti, è ricca di alberi da frutto e molti luoghi si prestano al gioco e all’avventura.

Fin dall’inizio, però,  sentono l’esigenza di darsi delle regole ed un’rganizzazione che possa gestire la piccola comunità. Bisogna assistere i bambini più piccoli, bisogna mantenere acceso il fuoco che in cima alla collina funge da segnalazione della loro posizione per gli sperati soccorsi, bisogna costruire dei ripari,  bisogna, in fine, dividersi i compiti per procacciarsi il cibo: chi si specializza nella raccolta della frutta e chi, invece, nella caccia dei piccoli cinghiali? Nasce da subito un’ assemblea e ne viene eletto un capo. 

Le cose iniziano a complicarsi quando il gruppo di cacciatori consegue i primi successi e comincia a mietere consenso sempre crescente dato, tra l’altro, il fascino maggiore esercitato sui ragazzini dalla pratica della caccia rispetto a quello della raccolta. Si passa così dalla naturale divisione del lavoro ad una divisione basata sul surplus. I cacciatori gradualmente iniziano a staccarsi dalla primigenia comunità. Iniziano ad adottare propri codici, propri rituali, segni distintivi quali la pittura del corpo ecc.

“C’è qualcosa che non va. Non capisco perché. Avevamo cominciato bene, eravamo felici. E poi...Poi la gente ha incominciato ad avere paura”.

I cacciatori nel tentativo di scongiurare la naturale paura, che nei sogni fa gridare i più piccoli nella notte, introducono dei riti, attorno al fuoco. Nasce piano una sorta di culto, che si avvale di feticci e di simboli magici. Le leggende iniziano a proliferare. I cacciatori boicottato le istituzioni assembleari ed iniziano ad ignorare le regole. Fondano un campo caccia che presto si strasforma in un “castello”, intraprendono una strategia del terrore che si avvale di punizioni sempre più sadiche e soprattutto della diffusione di storie di bestie e di mostri terribili. Non uccidono più solo gli animali ma, una volta ucciso per sbaglio uno di loro, imparano l’omicidiocome strumento per eliminare gli avversari.

Golding non crede nel mito roussoliano del “buon selvaggio” ed abbraccia, invece, la tesi dell’immanenza del male, l’irresistibile tendenza al peccato, la penosa grettezza dell’Umanità. Il Signore delle Mosche è così una testa di cinghiale impalata, eufemismo biblico di Satana.

Golding propone la sua tesi antropologica escogitando un’ambientazione che possa rievocare un’analisi sul campo connotando, in questo modo, il libro quasi come un trattato semiscientifico: l’isola deserta, appunto. I protagonisti poi, essendo dei bambini, o al massimo dei ragazzini, avrebbero il compito di sottolineare la pulsione al male come elemento genetico più che culturale.

In realtà la rigida tesi iniziale non riesce a risultare efficace se si analizza con cura prescindendo dall’impatto fortemente emotivo che invece il romanzo riesce ad avere.

Dal punto di vista squisitamente scientifico si registrano, infatti, gravi vizi metodologici! Gli stessi ragazzini protagonisti del romanzo (esperimento), membri di una scolaresca di un collegio, non farebbero che mimare e scimmiottare, estremizzandoli, i rapporti di potere e di sopraffazione della società adulta che avevano avuto più che il tempo di conoscere.

L’ambiente dell’isola, poi, non farebbe che mostrare come la causa principale scatenante i meccanismi della violenza sia la precarietà delle condizioni e la scarsità delle risorse disponibili.

Infine, l’esistenza di un iniziale gruppo minoritario che attraverso la pratica della violenza riesce ad avere il sopravvento sugli altri, frantumando l’iniziale unità e solidarietà, risulta concettualmente un boomerang per l’autore anglosassone.

Paradossalmente tutta questa ambiguità giova assolutamente al libro perché lo riesce a rendere stimolante per la riflessione ed il dibattito ma, sicuramente, non può aspirare alla palma di tesi definitiva sull’argomento. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

CONCLUSIONI

 

Come premesso, risposte definitive e trattazione esaustive sulla natura umana non siamo in grado di fornirle. Quello che abbiamo sviluppato altro non è che un piccolo approfondimento, un lavoro che in una qualche misura, stabilisce quali siano i “termini del discorso”.

Ecco, quindi, che se la psicologia sociale sembra aver abbandonato le teorie innatiste dell’aggressività tendendo a privilegiare le teorie reattive. L’etologia risulta dilaniata al suo interno nel momento in cui, ricercando la base biologica della società, tende ad applicare le leggi della selezione naturale all’uomo dando, così, il via alla formulazione di teorie bio-sociologiche e al darwinismo sociale. La stessa scienza nella sua anima antitetica arriva a considerare lo sviluppo umano come una sorta di allontanamento dal naturale equilibrio, allontanamento che risulterebbe perverso e la cui causa prima sarebbe proprio la cosiddetta “intelligenza umana”. L’antropologia nella sua metamorfosi da scienza al servizio del colonialismo e dell’ideologia occidentale a scienza “tollerante”, capace di mostrare e dimostrare la plurilinearità del progresso e il relativismo culturale, sottolinea l’esistenza di società diverse dalla nostra, prive di quell’aggressività che sembra pregnare i nostri sistemi.

Sebbene, a nostro avviso, si possono trovare più argomentazioni a favore di una tesi “neo rousseauliana”, “buonista” o se vogliamo “positivista” (e rivalutiamo in questo modo il positivismo comtiano troppo spesso e troppo superficialmente accusato di essere reazionario da quanti certo non hanno ecceduto nello sforzo di una sua completa e profonda comprensione) rimaniamo più che consapevoli che quanto trattato non rappresenta nulla che abbia un valore probatorio inattaccabile.

Alcune cose, però, possono ancora essere dette, alcuni elementi ancora sottolineati. 
 
 

LA DIADE DESTRA-SINISTRA 

Se è vero che l’analisi scientifica e la ricerca difficilmente possono fornire risposte a quesiti fondamentali quali quelli, nella fattispecie, relativi alla natura umana, è anche vero che la risposta a questi, che comunque viene data, non rimane relegata in un ambito esclusivamente filosofico, per non dire metafisico, ma risulta relativa e coerente ad una visione complessiva del mondo, della vita, all’idea del ruolo che ognuno di noi pensa di dover ricoprire e alla percezione dei meccanismi sottesi nei rapporti di interrelazione sociale. Le risposte a questi quesiti sottendono quindi precise concezioni politiche. Parliamo qui di politica nel senso più lato e forse, paradossalmente, più preciso. Lo facciamo riprendendone l’accezione di disciplina improntata sulla teoria e sulla prassi della costituzione, l’organizzazione e l’amministrazione della società, trascendendo quindi dalle mere dinamiche partitiche. E dunque, noi sosteniamo, nasce da qui, da una concezione antropologica dell’uomo, prima ancora che dall’interpretazione del reale e dalla sua eventuale critica, la differenza fra destra e sinistra. Inoltre, è proprio nella convinzione dell’intima e naturale bontà o, al contrario, dell’intima perversità e della sostanziale malvagità umana che la politica ha elaborato le sue utopie ed i suoi modelli sociali ove collocare l’uomo. È qui che inizia quel profondo solco che divide le due principali ideologie umane.

Asserendo questo ci sembra di introdurre un elemento relativamente inedito (per quanto ne sappiamo almeno) nel campo della filosofia politica o, quantomeno, ci sembra di focalizzarne un soggetto che nel suo obiettivo era stato incautamente lasciato in secondo piano.

Nella ricerca delle ragioni e dei significati della distinzione politica tra la destra e la sinistra, Norberto Bobbio abbandona le diadi tradizione-progresso, moderazione-estremismo, riforma-rivoluzione, uso-rifiuto della violenza, individuo-massa, autoritario-libertario, democratico-totalitario, ragione-sentimento, religiosità-ateismo, libertà-regole, naturale-artificiale, relativo-assoluto, solidarietà-competizione, che si sono rivelate scarsamente produttive e che necessitano di eccessive eccezioni alla regola per mantenere solamente la diade eguaglianza-disuguaglianza come unico vero tratto distintivo e caratterizzante. Secondo Bobbio, quindi, il pensiero politico di destra concepisce la società secondo schemi che enfatizzano la sua geometria verticale, dunque gerarchica, mentre il pensiero politico di sinistra si rifà a schemi geometrici orizzontali. Per la destra la diseguaglianza è un elemento naturale che non si deve superare ed eliminare ma, anzi, esaltare. La sinistra, per contro, denuncia l’ingiustizia della diseguaglianza in quanto artificiale e mira all’eguaglianza: gli uomini sono uguali nella diversità. È per questo che Bobbio agli antipodi di Rousseau non colloca Hobbes ma Nietzsche, l’anti egualitario per antonomasia.

A nostro avviso, però, la diade uguaglianza-disuguaglianza non riesce a risultare completamente esaustiva. Limitandoci al solo panorama politico italiano ecco che, ad esempio, i verdi che auspicano l’uguaglianza non solo tra gli uomini ma anche fra gli uomini e gli animali, gli anarchici che aborrano nel modo più assoluto le strutturazioni gerarchiche ed i radicali grandi garanti dei diritti civili ed umani, risulterebbero, in questo modo, campioni della sinistra. Non è così se vi sono verdi che amano gli animali perché non credono nell’uomo, se vi sono anarchici che lo disprezzano (da qui il solo apparente ossimoro della denominazione di anarchico di destra: si veda D’Annunzio ma anche il nuovo fenomeno degli anarco-capitalisti americani) e se i radicali credono anche nella libertà di una competizione fra gli uomini che arriva semplicemente a sostituire la distruzione economica a quella fisica vera e propria.

Ecco per cui la necessità di abbinare alla diade uguagliaza-disuguaglianza quella di intima bontà-malvagità antropologica. Non ci può essere pensirero di destra o di sinistra che nelle sue formulazioni coerentemente non vi faccia i conti.

Hobbes viene definito il filosofo della paura non solo perché aveva teorizzato uno stato mostruoso che fondava il suo mantenimento, appunto, sulla paura, ma anche perché gli uomini, per l’autore, avevano paura della loro miserrima condizione, avevano paura degli altri uomini e, soprattutto, perché Hobbes stesso aveva paura degli uomini. La scuola di Francoforte attraverso i suoi studi sulla personalità autoritaria è arrivata ad esplicite e precise conclusioni in questo senso: l’autoritarismo risulta di diretta derivazione dalla struttura autoritaria del carattere, dai suoi tratti, le cui cause vanno ricercate nel processo di socializzazione ed affiliazione degli individui. 
 
 

LA NATURA DEGLI STATI 

Dalla natura dell’uomo alla natura degli stati è breve il passo, non tanto perché sono gli uomini che costituiscono gli stati e perché lo fanno secondo la propria natura, quanto, piuttosto, perché lo fanno secondo quello che ritengono essere la natura umana.

Lo stato liberale13 mantiene latente la concezione di una natura umana perversa, che si nutre di perpetua competizione, che si può realizzare solamente ai danni dell’altro. Risulta, così, un’escrescenza dello stato di natura dove continua a vigere la legge della selezione naturale, dove il debole soccombe ed il forte sopravvive, anche se mitigata dalle nuove regole borghesi: quelle economiche. Qui il contratto, il patto sociale, non ha più senso alcuno, perde completamente di significato poiché non sancisce e non implica alcuna fuga dalla natura ma, in un qualche modo, quasi la replica. In questo senso la mafia può risultare un radicale interprete del modello economico liberale. Questa altro non è che un gruppo di individui organizzati e privi di scrupoli, pronti ad utilizzare qualunque mezzo nel processo di accumulazione di capitali e di potere nelle loro mani, un organizzazione che rispetta un’unica legge, quella del più forte al di là di qualsiasi valore o norma borghese di bon ton. Nello stato socialista implicita è l’antropologia positiva. Per questo forte è l’esigenza di appianare le disuguaglianze sedimentatesi artificialmente nel corso della storia. Questo almeno in teoria. In pratica, storicamente, il socialismo reale, anziché procedere verso la collettivizzazione ha promosso la statalizzazione, un nuovo capitalismo di stato dove l’uomo nuovo (lo stakanovista) era inserito in una visione prettamente economica: di nuovo homo economicus, questa volta per realizzare non se stesso ma lo stato. Parimenti le dittature nazi-fasciste piegano l’uomo allo stato, alla nazione (e ad un manipolo di super-uomini). Fortissima la visione di un individuo la cui dimensione ideale è la competizione, la lotta, il conflitto. Fortissima, quindi, anche l’idea della selezione naturale dove però l’individualismo viene controbilanciato dall’abnegazione al gruppo di appartenenza (razza, nazione, ecc.) e dove la dimensione etnico-razziale prevale su quella economica. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

IL PROGRESSO VERSO LA CIVILTÀ 

La storia ci mostra, così, uno scarto tra l’uomo e lo stato. Ci ha fatto conoscere stati lontani dalla dimensione umana, stati costituiti non per gli uomini ma sugli uomini. Ha, dunque fallito l’Umanità che con lo sviluppo della società ha inteso procedere attraverso l’emancipazione dall’imperfezione dello stato di natura verso la civiltà?

Definiamo la civiltà di un popolo tanto più alta quanto la sua capacità di vivere in armonia con se stesso, con gli altri popoli e nell’ambiente in cui è insediato, e quanto la sua capacità di pervenire ad una sempre maggiore conoscenza e coscienza. Detto questo diciamo anche che vere civiltà non sono in realtà mai esistite. La civiltà, in questo senso, è uno stato mentale a cui tendere! Questo però non significa che vere civiltà mai esisteranno. Chiamateci illusi, od ingenui se credete, ma il progresso esiste (e non è il mero progresso tecnologico-industriale di cui parliamo). Non è certo lineare, non è univoco, conosce periodi regressivi, reazionari, ma procede. E questo ci sembra evidente: nonostante tutto le condizioni dell’umanità sono migliorate come segnalano il costante aumento della popolazione (anche se, naturalmente, questo ha delle implicazione estremamente negative), della durata media della vita ed il miglioramento delle condizioni sanitarie generali da un lato; l’affermazione dei diritti umani e civili, almeno sulla carta (sulle carte costituzionali) ed un tempo non era neppure concepibile questo, dall’altro. Questo non significa affatto che il nostro è il migliore dei mondi possibili, ma neanche è vero che “non è questo ancora il peggiore dei possibili mondi”.  
 
 

“NON È QUESTO ANCORA IL PEGGIORE DEI POSSIBILI MONDI” 

Il problema della nostra epoca risiede nel fatto che oggi l’Umanità può autodistruggersi e distruggere l’intero pianeta con una velocità ed una facilità un tempo inconcepibili; si pensi esemplificativamente alla proliferazione nucleare. Vi è un allarmante divario fra il progresso tecnologico e quello umano della cultura così che oggi strumenti troppo potenti sono nelle mani di uomini non ancora pronti. Ma questo è il problema e non altri! L’origine del male non deve essere ricercata nel patrimonio genetico dell’uomo ma nella cultura, nella sua società. Le teorie sociologiche dell’ultrasocializzazione14 con vigore sottolineano l’assoluta preponderanza del fenotipo sul genotipo e la nostra società avrebbe veramente bisogno di prenderle maggiormente in considerazione.

Su tutto presiede, infine, il problema della comunicazione-comprensione. Il conflitto, la degenerazione dei rapporti umani, sono direttamente connessi ad un’incapacità-impossibilità di comunicare. Il processo di differenziazione sociale sotteso dallo sviluppo dei nostri sistemi con la modernizzazione implica inevitabilmente un moltiplicarsi di gruppi, categorie, ceti, comunità, collettività, aventi interessi, scopi, attività e subcultura anche profondamente diversi quando non addirittura divergenti. Dunque, col proliferare di sempre nuove problematiche e relative nuove prospettive, registriamo il crescente indebolimento della condivisione della co-significazione (cioè la condivisione non solo delle informazioni ma anche dei significati che l’accezione del termine “comunicazione” impone) che essendo elemento fondamentale di integrazione nei sistemi sociali porta ovviamente alla perdita della solidarietà meccanica, tipica delle società meno stratiformi e complesse, ma non consente neppure un adeguato consolidamento della solidarietà organica che, evidentemente, stenta a mantenere il passo di un crescente sviluppo.

Una volta consapevoli di come l’incomprensione nei rapporti di interazione degli individui e la loro generale degenerazione sia un fattore strutturale, fisiologico ai nostri stessi sistemi, alla nostra società (vivendo ci facciamo del male in modo diretto ed indiretto, consapevolmente ed inconsapevolmente), piuttosto che un problema inerente alla natura umana, ecco che allora non possiamo fare del “cannibalismo sociale” un valore di riferimento, uno status. Solitamente chi sostiene che, in fondo, ognuno coltiva in anima l’egoismo e che la natura umana si nutre della prevaricazione e dell’odio cerca in realtà consenso ed attenuanti atte a giustificare il proprio individuale comportamento. Non si pretenda di farne un valore universale quando si tratta solo di un bieco ideologismo. 
 
 

“L’UOMO NUOVO”:

Boscimane tecnologico del terzo millennio 

Meglio sarebbe per tutti “credere” in un uomo che propende al bene piuttosto che al male ed iniziare a concepire l’idea che, se l’uomo lo si sorprende nel ruolo del prevaricatore, nessun atavico impulso lo muove ma un’infinita serie di fattori sociali, culturali ed un intricato intreccio di esperienze individuali.

La società nel suo sviluppo tende ad evolversi verso una complessità straordinaria. Il modello culturale occidentale sembra ormai essersi imposto su tutto il pianeta; ha in molti casi soffocato le culture ed i modelli sociali preesistenti od alternativi ma, contemporaneamente, ha sviluppato in sé una miriade di sottoculture e di comunità differenti. Oggi, alle soglie del terzo millennio, addirittura, stiamo assistendo alla nascita di un mondo parallelo al nostro, quello di Internet, dove troviamo comunità virtuali che dal punto di vista sociologico ed antropologico già adesso possono essere studiate come comunità a tutti gli effetti.

Come fare, dunque, di fronte ad una differenziazione sociale che cresce a livello esponenziale, a mantenere un barlume di solidarietà organica e limitare il conflitto che inevitabilmente ne scaturisce se almeno non manteniamo un modello antropologico positivo?

Se, come diceva Rousseau, non vogliamo tornare nella foresta con gli orsi, in alternativa, prima ancora che giusto, è conveniente iniziare a riconsiderare il nostro modello antropologico.

Ecco, quindi, che quello che alcune ideologie, ed i tristi regimi a queste ispirati, chiamavano “l’uomo nuovo” noi simbolicamente lo riscopriamo nel boscimane del deserto del Kalahari che proprio in quanto rappresentante di una società sopravvissuta al neolitico ci testimonia un’umanità gentile e, nonostante tutto, pacifica.

Insomma, per sopravvivere, dovremo essere un po’ dei boscimani tecnologici del terzo millennio! 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Note 

 
 

1 Da la Repubblica di giorni vari. 

2 Si abbiano ad esempio le politiche per la difesa della razza attuate dal nazismo e propagandate ideologicamente in Italia dall’omonima rivista fascista tra i cui collaboratori troviamo anche Almirante poi fondatore del Movimento Sociale Italiano.  

3 Si noti come gli autori parlino di un “istinto sociale”, non innato ma storicamente determinato. 

4 E’ incredibile come altri autori come Peter Rivière o Napoleon Chagnon descrivano popolazioni amazzoniche quali gli Yanomano o gli Xikrin come popolazioni estremamente bellicose che preparandosi per le spedizioni cantano: “Ho fame di carne come l’avvoltoio goloso di cadaveri”. X. de Crespigny scrive: “La violenza degli uomini, più di qualsiasi altro accidente naturale, è quella che ha ridotto la tribù degli Amahuaca ad appena 500 persone (...). La maggiore minaccia per la sopravvivenza di questa tribù  è la frequenza con cui i suoi membri si ammazzano a vicenda.”.

Noi non sappiamo se questi autori abbiano descritto popolazioni diverse; purtroppo temiamo che il problema sia di carattere  ideologico e che siano gli eccessi interpretativi ad aver portato a valutazioni così differenti. Questo ci deve fare riflettere sulla metodologia antropologica ma anche sull’epistemologia di questa scienza. 

5 Ci risparmiamo pure di affrontare il discorso se gli animali siano o no di natura malvagia, che probabilmente, prima ancora di essere un quesito difficilmente dipanabile, è essenzialmente inutile: ci basti accettare il concetto che è la natura ad essere aspra per gli esseri viventi e se vogliamo violenta, moralmente o filosoficamente parlando, ingiusta, come scritto al termine del paragrafo. 

6 Il nome “Boscimani” è di coniatura occidentale (dall’olandese “Boschjesman”: uomo della boscaglia)  mentre il loro vero nome è “San”(= uomini: moltissimi popoli si danno il nome di “uomini”). 

7 Occhi a mandorla, tratti vagamente mongolici, alti in media un metro e sessanta, colorito bruno ma relativamente chiaro per essere un popolo sub-sahariano, capelli crespi e glomeruli. I Boscimani oggi sono dei profughi, degli sradicati, il resto di un popolo messo alle strette ma che un tempo occupava tutta l’Africa meridionale e vaste altre zone del continente: le loro stupende pitture rupestri sono state ritrovate fino nel Sudan meridionale.  

8 Nomadi del deserto del Kalahari vivono di caccia e di raccolta. Non possedendo bestiame non hanno latte di animale per i bambini. Ogni bambino viene quindi allattato dalla madre fino a due-tre anni d’età il che significa che gli altri figli nati nel frattempo non possono essere nutriti in alcun modo. Secondo alcune relazioni la popolazione si mantiene stabile perchè i figli nati inaspettatamente vengono soppressi appena partoriti, prima che possano “piangere nel cuore della mamma”. Secondo gli stessi Boscimani la popolazione si manterrebbe stabile perché le donne sono naturalmente sterili durante i periodi di siccità. 

9 Non hanno una concezione sviluppata della proprietà privata e trovano naturale dividere con gli altri una grossa preda cacciata. 

10 I duelli verbali, con cui risolvono i contenziosi, stupiscono gli Occidentali anche per la particolarità dei suoni che caratterizza  la loro lingua: suoni avulsi, schioccanti, che si articolano inspirando.

-I Boscimani amano l’arte; hanno abbandonato l’antica pittura e l’incisione ma continuano a coltivare in particolare la danza e la musica. La cosa sorprendente è che, nonostante un senso del ritmo così sviluppato, non possiedono tamburi.

-Esistono due  divertenti e delicate commedie (Ma che siamo tutti matti?/ The gods must be crazy, Botswana 1981,col,108’ e Lassù qualcuno è impazzito/ The gods must be crazy 2, Botswana 1989,col,100’) di Jamie Uys ambientate tra i Boscimani e con protagonista N’Xau, vero “talento naturale”, che non aveva mai visto un Bianco prima di incontrare Uys e che credeva che al mondo ci fossero solo 200 persone prima di seguirlo in Giappone dove i film ebbero un notevole successo. 

11 Gli etnoantropologi hanno recentemente concentrato la loro attenzione su come il pettegolezzo influisca sul grado di conformismo di ogni gruppo: il pettegolezzo e la maldicenza possono trattenere il popolo dal trasgredire le regole sociali; influenzare la selezione di capi idonei; e aiutare una società a conservare inalterato il complesso delle sue leggi o norme. Il pettegolezzo e lo scandalo possono essere usati naturalmente anche dal singolo, per un proprio fine particolare: annientare un rivale o un avversario, ottenere informazioni a proprio vantaggio. 

12 É stato largamente dimostrato che la mobilità sociale è, soprattutto, un fenomeno che non coinvolge i singoli individui permettendogli di passare da una classe all’altra ma è inerente alle classi stesse che nel loro complesso si trasformano. Difficilmente quindi il figlio di una famiglia d’estrazione operaia ha speranze di diventare un impiegato se l’intero terziario non si sviluppa rispetto al settore industriale e non si registra un miglioramento delle condizioni economiche generali che coinvolge l’intera società. Il mito del “self made man” è, appunto, un mito, e come tale andrebbe ridimensionato. 

13 Il termine “liberalismo” ha una pluralità di significati che, se non segnalata, può essere fonte di gravi equivoci. Qui noi parliamo dello stato liberale nel senso di “liberal-liberalista”cioè, di uno stato che si fonda sui principi pressoché esclusivi del mercato e dell’economia del capitale che, in sostanza, viene costruito ad uso e consumo del mercato, in sua funzione insomma.   

14 Il termine è stato coniato nel ‘61 da D. H. Wrong in senso critico e forse anche dispregiativo nei confronti delle teorie di Parsons che arrivano a sancire il primato della socializzazione ed in generale dell’influenza sociale sui caratteri ereditari nella sfera della personalità. Questo modello è già fortemente presente nell’opera di Durkheim.. Noi usiamo il termine conferendogli connotazione positiva. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Bibliografia 
 
 

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