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Ora basta con Jean Jacques
di Nicola Iannello
Dal concetto di natura alla teoria della sovranità: quanti delitti sono stati commessi in suo nome...

Pochi pensatori hanno avuto un'influenza paragonabile a quella di Jean-Jacques Rousseau. Intellettuale eclettico e non specialistico, con la sua attività di scrittore il ginevrino ha spaziato nei campi della filosofia, della letteratura, della storia, della politica, della pedagogia, della musicologia. Celebrato in vita ma anche al centro di aspre polemiche, Rousseau appare come uno dei padri della moderna figura dell'engagé di successo; e alla sua fama non ha fatto difetto un'accorta gestione della propria immagine, con un ben calibrato dosaggio delle manifestazioni pubbliche. Nato nel 1712 a Ginevra, Rousseau dopo un'infanzia travagliata lascia la sua città in cerca di avventura, comprendendo ben presto che la Francia si confaceva meglio alle sue ambizioni. Il succès de scandale arriva nel 1750 con la partecipazione a un concorso letterario avente per tema «se il ristabilimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a moralizzare i costumi». Rousseau conquista il primo premio sostenendo una tesi «regressista» basata sull'assunto che tutto ciò che allontana l'uomo dalla natura è corruzione. Anche il Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, del 1754, disegna una «storia dell'uomo» da una condizione originaria di innocenza e isolamento lungo una evoluzione per gradi che è il racconto di un pervertimento. Se la nascita della famiglia colloca l'uomo in una situazione che gli regala la «fragile felicità» della società nascente, l'invenzione della proprietà privata è il peccato originale laico che piomba la specie in una condizione degradante sia da un punto di vista antropologico che sociale: disuguaglianza, miseria, crimine, falsità, sopraffazione, amor proprio e in ultimo la guerra sono il portato di una socializzazione perversa. È la celebre invettiva contro il fondatore della proprietà: «Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, fu il vero fondatore della società civile». La rivoluzione «economica» portata da agricoltura e metallurgia è la madre di tutte le sciagure della nostra presente condizione, e il commercio è il tipico esempio di strumentalizzazione reciproca e generalizzata tra gli uomini. Con questi scritti, in pieno Settecento, Rousseau si colloca in una posizione opposta a quella dei pensatori che - attraverso la nascita dell'economia politica - riescono a cogliere aspetti essenziali della società moderna. Senza timore di semplificare troppo, se filosofi come David Hume e Adam Smith, grazie alle categorie dello scambio e della divisione del lavoro, vedono le capacità di socializzazione proprie della «grande società» basata su commercio e manifatture, Rousseau rifiuta alla radice qualunque rapporto «economico» tra uomo e uomo.
Non è un caso che quando il ginevrino veste i panni del legislatore - come nei casi della Corsica e della Polonia - il modello proposto sia quello di una società austera, frugale, chiusa, ugualitaria, dai costumi semplici e dalle virtù marziali. Sembra quasi che Rousseau veda gli aspetti salienti della società moderna ma li percepisca solo come corruzione e decadenza rispetto a un ideale di convivenza influenzato dai filosofi e dagli storici antichi. E non è un caso che in un saggio proprio sull'economia politica - scritto nel 1755 come voce per l'Encyclopédie -, sotto l'influenza di John Locke, Rousseau scriva le sue pagine più liberali - rimaste per altro senza seguito -, riconoscendo l'importanza della proprietà e la strumentalità dell'associazione civile alla difesa di vita, beni e libertà. Questa reputazione di pensatore controverso - e anche contraddittorio: considerato il fondatore della moderna pedagogia, ebbe cinque figli e li abbandonò tutti - non è mai venuta meno nel corso degli anni, scanditi da opere di larga diffusione. Nella cultura del suo secolo Rousseau percorre sentieri personali che ne rendono difficile la collocazione. Circoscrivendo il nostro interesse agli scritti che trattano di politica, e senza pretesa di classificazioni, possiamo parlare di Rousseau - spesso considerato il fondatore teorico della democrazia dei moderni - come uno dei più risoluti pensatori anti-individualisti e anti-liberali della nostra cultura. Le sue opere sono un arsenale formidabile per i nemici della società aperta. I miti fondatori del pensiero rousseauiano sono la «bontà naturale dell'uomo» e la figura del «buon selvaggio», concepiti in esplicita opposizione alle premesse antropologiche di Thomas Hobbes che, prendendo le mosse da uno stato di natura come guerra di tutti contro tutti, approda al Leviatano, inteso come potere assoluto costituito sulla rinuncia degli uomini alla libertà naturale in favore della conservazione della vita. Sulla base della propria mitologia Rousseau assolve la natura da qualunque responsabilità sui problemi della condizione umana, e imputa alle istituzioni sociali - ovviamente quelle basate sulla proprietà privata - la colpa di ogni male. Da questi assunti scaturisce una filosofia di presunta emancipazione dell'uomo da tutti i vincoli imposti dalla vita associata e dalle convenzioni. Combinando il vagheggiamento di una vita naturale senza costrizioni lavorative o sessuali con l'avversione per le attività economiche, Rousseau - ha sottolineato la saggista americana Camille Paglia nel suo Sexual Personæ - appare come il padre diretto di tante correnti culturali contemporanee, dall'ambientalismo, all'anti-industrialismo, al femminismo estremista. Senza la santificazione rousseauiana della natura non sarebbe concepibile lo spensierato ecologismo oggi di moda che tra l'altro sposa spesso anche il pauperismo dell'autore del Discorso sulla disuguaglianza.
È tutto il rapporto di Rousseau con il concetto di natura, tuttavia, a essere problematico. Negli scritti del ginevrino, infatti, a una condizione originaria di abbondanza in cui l'uomo vive senza bisogno di lavorare, succede - per accidenti evidentemente «naturali» - uno stato di cose che costringe l'uomo al lavoro per sostenersi. Ma allora, oltre all'ambiguità di una natura prima benigna e poi matrigna, bisogna affrontare anche la contraddittorietà della visione della proprietà, vista come causa di ogni male ma che realisticamente appare come risposta alle mutate condizioni ambientali che obbligano l'uomo ad affrontare il problema della scarsità delle risorse. E pure la concezione rousseauiana della vita sessuale e familiare presenta aspetti difficilmente conciliabili tra loro, con il problema di spiegare come dall'unione meramente istintiva dei sessi si approdi - attraverso l'«invenzione» dell'amore e l'istituzione artificiale del tabù dell'incesto - alla famiglia. L'opera di Rousseau non è un corpus coerente. Se nei due Discorsi si delinea una filosofia della storia nel segno della decadenza, cioè dell'allontanamento da una condizione originaria di purezza, nel Contratto sociale si propone un salto nel politico per produrre un mutamento qualitativo nella struttura morale dell'uomo. L'opera del 1762 avanza una proposta politica radicale che ha l'ambizione di produrre «un cambiamento molto notevole» nell'uomo. Il valore fondamentale del discorso è la libertà, concepita come autonomia: «l'obbedienza alla legge, che noi stessi ci siamo prescritta, è libertà». Partendo da questa definizione, Rousseau può aspirare a edificare una società nella quale - attraverso la democratizzazione del processo di produzione della legge - sia bandita la soggezione, l'eteronomia. La partecipazione alla vita della città e la democrazia - l'unico regime legittimo in quanto tutti sono sovrani - sono gli strumenti di un medesimo discorso che cerca di interpretare la politica in termini di autonomia, a differenza di Hobbes che persegue la sicurezza.
Tutto l'edificio concettuale rousseauiano risponde all'ambizione di escludere qualunque tensione o conflitto e di ricondurre a unità il mondo politico, anche se il ginevrino sa bene che ha di fronte una molteplicità di soggetti da entrambi i lati dell'obbligazione politica: il corpo politico è «Stato in quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo, potenza nel confronto coi suoi simili gli associati, essi prendono collettivamente il nome di popolo, e si chiamano particolarmente cittadini in quanto partecipi dell'autorità sovrana, e sudditi in quanto sottomessi alle leggi dello Stato». Il Contratto sociale è il più temerario tentativo di superare le aporie del rapporto dell'individuo con lo Stato nel segno della scomparsa di qualunque soggezione. Nella politica Rousseau cerca l'identità tra governanti e governati; la democrazia è vista come massima espressione di unità, in quanto indistinzione tra l'istanza che comanda e chi è chiamato a obbedire. Il problema è posto nei suoi termini estremi: «Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune le persone e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti altrettanto libero come prima». A tale sfida ardita che mira a consegnare intatta la libertà al mondo della politica, corrisponde una soluzione estrema: «Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutta la sua potenza sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi riceviamo in corpo ciascun membro come parte indivisibile del tutto». La volontà generale è l'espediente concettuale che permette la quadratura del cerchio attraverso la creazione di un «io comune» che ospita tutti i soggetti che decidono di abbandonare la condizione naturale per accedere a quella politica senza barattare l'autonomia. La volontà generale è la libertà di ciascuno reincarnata attraverso il contratto come un potere condiviso per dirigere gli affari della comunità, è quella parte della nostra individualità che muove ciascuno a dire «noi» e ad agire in accordo con questa identificazione. Da qui le sue caratteristiche: infallibilità, inalienabilità, irrappresentabilità. Dal lato della soggettività politica le conseguenze sono importanti; Rousseau mira a non creare distinzioni incolmabili tra i ruoli che gli uomini possono rivestire nel mondo politico: «l'essenza del corpo politico è nell'accordo dell'obbedienza e della libertà, e queste parole suddito e sovrano sono correlazioni identiche, la cui idea si riunisce sotto l'unica parola cittadino». Come già la legge, sotto la protezione della quale obbedienza e libertà convivono, assicurava l'autonomia nell'ambito della politica in generale, così il citoyen è l'asse portante di questa concezione unitaria della soggettività politica, il centro di gravità verso il quale tendono tutti gli aspetti dell'attività politica degli uomini. Ma le tensioni proprie del mondo politico non vengono meno. Il cittadino che incarna la volontà generale non cancella mai l'uomo portatore di interessi particolari: «chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò che non significa altro, se non che lo si costringerà a esser libero». Il corto circuito della costrizione alla libertà rappresenta il fallimento di un sogno di purezza e l'annuncio di una stagione luciferina. Fallisce l'utopia di conciliare l'obbedienza con la libertà, e si annuncia l'epoca della sacralizzazione laica del potere che viene investito della missione di redimere l'uomo dalle sue imperfezioni. Lo stesso Rousseau del resto sembra cosciente dello scacco cui giunge, ovvero dell'impossibilità di traghettare incontaminata l'autonomia nel mondo della politica. Come confida in una lettera del 1767 al Marchese di Mirabeau, se non si riesce a «trovare una forma di governo che ponga la legge al di sopra dell'uomo», allora bisogna passare all'estremo opposto e mettere l'uomo sopra la legge e stabilire il dispotismo più arbitrario; l'autore del Contratto sociale riduce l'opzione politica tra «la più austera democrazia e hobbesismo più perfetto». Ed è significativo che alla richiesta di Mirabeau di pubblicare il carteggio, Rousseau opponga un netto rifiuto. Uno degli interpreti più acuti del ginevrino, Robert Derathé nel suo Jean-Jacques Rousseau et la science politique de son temps, inscrive la parabola dal Discorso sulla disuguaglianza al Contratto sociale nel passaggio di Rousseau da avversario a discepolo di Hobbes. Senza riproporre il problema del rapporto tra Rousseau e la Rivoluzione francese - Jean-Jacques è morto nel 1778, undici anni prima della presa della Bastiglia, quindici prima dell'ascesa al potere di Robespierre - non bisogna d'altronde dimenticare che il Contratto sociale era il livre de chevet dei giacobini. Il modello politico rousseauiano si configura come la costruzione di una Repubblica all'insegna dell'assorbimento del singolo in un tutto organico che lo trascende e gli dà senso. Secondo J.L. Talmon, Rousseau è il padre della «democrazia totalitaria».
In effetti l'autore del Contratto sociale è il pensatore che meglio riflette la scissione propria della moderna soggettività, quella frattura che avviene quando si cerca di collocare l'uomo nel suo rapporto con lo Stato, il fenomeno tipico della modernità politica. Anticipando in questo senso le categorie su cui si basa la Dichiarazione dei diritti del 1789 e l'elaborazione del giovane Marx, Rousseau formula una serie di distinzioni che rendono schizofrenica la relazione del soggetto con il mondo che lo circonda. Se la natura è l'habitat dell'uomo, nella condizione civile troviamo tanto il bourgeois (o citadin) che il citoyen, a seconda che il soggetto abiti la ville (l'urbs come spazio economico-sociale) o la cité (la civitas come dimensione etico-poltica), cioè a seconda della mancata o avvenuta integrazione nell'«io comune» della volontà generale.
La schizofrenia politica di Rousseau passa nel giovane Marx che contesta i risultati delle rivoluzioni liberal-borghesi che - secondo il lessico della Questione ebraica - emancipano appunto il concreto bourgeois relegando l'astratto citoyen nei cieli dei principî politici. Ma il sogno di riassorbire il borghese - colui che vive nella società civile (bürgerliche Gesellschaft), l'homo oeconomicus - nel cittadino - ovvero l'utopia di una comunità politica senza contrasti - alberga solo in quei pensatori che, come Gramsci, considerano la distinzione tra governanti e governati un portato della società capitalistico-borghese destinato a perire con essa, e non comprendono che siamo di fronte all'essenza della obbligazione politica statuale. L'imputazione alla società capitalistica divisa in classi della distinzione tra governanti e governati impedisce di cogliere l'arcano della modernità politica: l'impossibilità di concepire la libertà all'interno dello Stato.


Nicola Iannello

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