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Roberto Pertici
Roberto Pertici, «Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l'itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943)»

 


VI. Il 'mondo di ieri': il liberalismo e Benedetto Croce

58. Abbiamo delineato gli atteggiamenti di Cantimori verso i fenomeni politici emergenti nei decenni fra le due guerre: fascismo, bolscevismo, nazionalsocialismo: «i giovani che sorgono - si leggeva sul Foglio d'ordini, il bollettino settimanale del P.N.F., del 20 settembre 1930 - non hanno più alcuna attrattiva per i principi del secolo scorso che si chiamarono liberalismo, democrazia, socialismo [...] Le generazioni del ventesimo secolo sono affascinate dai soli due nuovi sistemi politici esistenti nel mondo: il fascismo e il bolscevismo». [135] Nella loro grossolanità propagandistica, queste parole fissano, senza dubbio, una situazione reale, della quale Cantimori è un caso esemplare, ma tutt'altro che unico. Le difficoltà e la crisi degli stati liberali di fronte all'emergere di una società di massa che presupponeva altri canali di rappresentanza politica erano fenomeni esaminati e discussi già prima della guerra, ma negli anni successivi, di fronte alle immani trasformazioni che il conflitto aveva introdotte e alla scossa rivoluzionaria che proveniva dall'est europeo, e poi all'affermarsi dei 'fascismi', divenne opinione comune che gli antichi assetti istituzionali ed economici basati sul liberalismo ottocentesco fossero ormai oltrepassati e che lo stesso ideale liberale (nel senso politico e in quello economico, in Italia chiamato 'liberismo') non corrispondesse più alle esigenze dell'epoca, fosse legato a quello che Stefan Zweig avrebbe chiamato 'il mondo di ieri': la crisi economica del 1929 e i suoi effetti economici e politici diedero poi, a tale opinione, un vigore dirompente. Gli ideali liberali parvero incapaci di reggere agli attacchi concentrici del marxismo, del conservatorismo, del corporativismo fascista, del 'planismo', dell''interventismo': iniziava quell''eclissi del liberalismo', che si è protratta, nonostante la vittoria dei principi liberali e il ritorno delle istituzioni liberaldemocratiche in importanti paesi europei alla fine della seconda guerra mondiale, ben oltre il 1945, fin verso gli inizi degli anni '70. [136] Questo sfondo ideologico-politico dev'essere sempre tenuto presente da chi cerchi di tracciare la parabola culturale e politica di Cantimori e delle generazioni, che si vennero formando, in Italia, dalla seconda metà degli anni '20: quasi mai, per costoro, l'abbandono, che presto o tardi avvenne, del primitivo fascismo, segnò un ricupero del liberalismo e una riconsiderazione dei suoi valori. Anche quando non passarono al comunismo (in cui spesso ritrovarono molti elementi del loro precedente antiliberalismo), quando approdarono alla liberaldemocrazia, sentirono il bisogno di segnare un distacco netto dalle precedenti esperienze liberali, inserendo contenuti nuovi in campo politico e, più spesso ancora, in quello economico: da qui, in Italia, il fenomeno del liberalsocialismo e dell'azionismo.

59. Sull'estraneità originaria di Cantimori al mondo liberale non è qui il caso d'insistere: tutto quanto abbiamo mostrato della sua formazione, delle sue prime esperienze politiche, delle successive vicende intellettuali la conferma. Non troviamo tuttavia, nel Cantimori di questi anni, una critica sistematica dei principî e delle istituzioni liberali, quasi che essa sia un'arrière-pensée sottesa ai giudizi che via via esprime. Gentilianamente egli pone la base filosofica del liberalismo nella riduzione della politica all'economia, alla sfera dell'utile e quindi nel rifiuto della sua identificazione con l'etica (PSC, 242 e nota 13, in La politica di Carl Schmitt del 1935). A suo giudizio, invece, «il problema dei rapporti fra vita etica individuale e vita politica (vita etica nello stato etico) è fondamentale, è uno dei più urgenti nell'Europa» contemporanea: al radicale Alain che dichiara l'importanza della disciplina nella vita degli Stati, ma poi vorrebbe limitarne il potere, perché lo «spirito non deve mai ubbidienza», ricorda nel '33 che è ambigua «la contemporanea affermazione della esigenza statale e di quella individualistica» e che «molto pericoloso» è lo «scambio fra individuo e spirito», nel senso che la libertà compete a questo, non a quello (PSC, 566). Quindi la critica anti-individualistica (contro l'«atomismo liberalesco»: PSC, 40) e anti-utilitaristica, consueta in quella cultura: al liberalismo è consentaneo l'«industrialismo produttivistico», esso è un'ideologia essenzialmente «borghese». [137] Per il Cantimori corporativista, polemica antiliberale e polemica antiborghese si identificano: recensendo, nel 1936, il libro di Nello Quilici sullo scandalo della Banca Romana, ne sottolinea il «notevole valore politico-pubblicistico-polemico con la sua documentata accusa alla borghesia» e ne riporta, condividendolo, il giudizio: «La grande impresa del liberalismo politico, il capolavoro della moderna borghesia si rivelava una colossale impresa economica animata da istinti rapaci, come Tocqueville l'aveva definita. Ipoteca degli interessi privati sugli interessi pubblici». [138] Si noti il riferimento a Tocqueville, su cui si svolsero in quegli anni in Italia notevoli discussioni: Cantimori lo considera soprattutto un critico della democrazia, americana in ispecie (PSC, 354, 390): è ovviamente una lettura parziale, motivata da quella critica dell'ideologia americana, dell''americanismo', della cultura d'oltre Oceano, da quella sottolineatura delle «straordinarie differenze di forma mentis e di educazione culturale che c'è fra noi [europei] e loro [americani]», [139] che è una costante del Cantimori di allora.

60. Ma quella gentiliana non è la sola matrice del suo anti-liberalismo: se ne avverte un'altra, più inquieta, nietzscheano-marxiana (secondo miscele ideologiche non inconsuete negli ambienti della konservative Revolution tedesca), secondo cui il liberalismo dottrinale sarebbe una forma di «fariseismo», uno di quei «falsi valori del mondo presente» verso cui è necessario esercitare una «critica filosofica, sociale, culturale» (PSC, 206), che ne sveli la 'decadenza' (e la fine), che lo consideri un 'morto passato' a cui opporre un 'avvenire' (Studi, 179); [140] e un'altra ancora, che potremmo definire di 'realismo politico', «hegeliano e semimarxista» (Storici, 351), che in nome del famoso carattere 'rugoso' della realtà, demistifica come retorici, ingenui, interessati, essenzialmente conservatori, valori e atteggiamenti variamente liberali. Da qui l'evidente fastidio intellettuale, che Cantimori prova verso scrittori e pensatori e storici che vi fanno riferimento, come Alain, come Thomas Mann («questo scrittore che si compiace di difendere il mondo pel quale è vissuto e pel quale ha scritto, e di chiamarsi 'bürgerlich'»: PSC, 216), come il «teutonizzato» [141] Ortega y Gasset (dell'opera del quale non doveva ignorare il significato nella Spagna dal 1929 all'esilio del '36), esemplare tipico - scrive nel 1937 - di «questi 'pensatori' contemporanei, che stanno fra il pubblicista, il filosofo, l'oratore e il poeta [...] Nei periodi di scosse e di rivolgimenti sociali essi si limitano a rispecchiare il disorientamento delle vecchie classi, o degli intellettuali che le rappresentano e le esprimono» (PSC, 637), come Johan Huizinga. La recensione del dicembre 1936 alla traduzione tedesca, curata da Werner Kaegi, di In de schaduwen van morgen dell'«illustre storico olandese» è, nella sua brevità e nel suo tono liquidatorio, un testo esemplare: si tratta scrive Cantimori - dello «sfogo di uno spirito d'artista individualistico, liberaleggiante, contro questo mondo moderno, che non gli va» e aggiungeva.

61. Per Cantimori, il «mondo moderno» si afferma nella «rivoluzione sociale che in Europa si va compiendo», in quello che un altro recensore chiamerà «il rivolgimento sociale dei tempi nostri, causato dall'irruzione della massa e dal concetto nuovo della vita» [142] che ne deriva: i grandi regimi di massa, il fascismo, il comunismo, il nazionalsocialismo ne sono i protagonisti, nei loro rapporti reciproci (e nelle loro reciproche lotte) è riposto il futuro d'Europa, sul quale, quindi, hanno poco da dire gli spiriti «individualistici», «liberaleggianti», che rimangono in disparte disgustati, come Huizinga (del quale, fra l'altro, sottolinea l'anima d'artista e il fondo letterario). Il senso 'politico' complessivo dell'opera, che fece allora un'impressione enorme in Europa, la sua polemica contro le ideologie razzistiche, contro Spengler e Schmitt, la personalità stessa del suo autore, che come rettore di Leida aveva già dovuto fronteggiare l'invadenza della propaganda nazista, non potevano sfuggire al recensore, come non sfuggirono poi ad altri lettori italiani; [143] eppure Cantimori ritenne che la sua nota fondamentale fosse proprio l'impoliticità, la incomprensione dei dati di fondo della lotta presente. Come avrebbe scritto Arnaldo Momigliano, sia che venga letta «in chiave fascista o in chiave comunista» (alludendo alla difficoltà di definire le prospettive ideologico-politiche del Cantimori 1935-1938), la recensione a Huizinga mostra soprattutto l'estraneità di Cantimori «al liberalismo cristiano e cosmopolita dell'autore». [144] Nel saggio introduttivo alla ristampa einaudiana del 1962, lo storico ripropose, con qualche significativa omissione, [145] il testo del 1936, ribadendone il giudizio, ma al tempo stesso (accanto, magari, a parole che avevano un senso contrario) fece un'ammissione importante, su cui non si è sempre insistito a dovere: che in quegli anni la difesa della «cultura» e della «civiltà», oggetto del suo sarcasmo di allora, dètte a molti una «forza di resistenza» e una «spinta all'azione» pari a quella che altri derivarono da «una concezione precisa, definita e realistica», da «un lavoro concreto e specializzato», da una «ideologia politica». Non si trattava soltanto del riconoscimento della nobiltà di una posizione morale: molti di quei «begli spiriti», di cui aveva parlato nel '36, «forse [avevano] una visione sostanzialmente più chiara della realtà storica generale di quei tempi, di quanto potesse avere il [suo] battagliero realismo» (Storici, 351).

62. Nel 1935 Cantimori definiva Benedetto Croce il «liberale più coerente di oggi» (PSC, 242 nota 13), appunto per la riduzione della politica ad economia e per l'autonomia categoriale accordata a quest'ultima. Già allora, tuttavia, doveva avvertire la distanza che separava il filosofo italiano da uomini come Huizinga, Alain, Ortega e Mann e l'avrebbe ribadita nel 1962: «La critica crociana al Burckhardt e al Ranke, il suo saldissimo storicismo; l'interessamento politico attivo, il suo realismo e i suoi richiami a Marx e Labriola, sembravano bilanciare la 'libertà di spirito' come garantita dall'amicizia del Croce per Thomas Mann» (Storici, 348). Questa situazione rendeva più ravvicinato il loro confronto, ma altrettanto difficile. Prosperi, nel suo saggio introduttivo alla ristampa degli Eretici, ha apportato, a questo proposito, un notevole contributo documentario e qualche nuovo elemento è stato presentato più sopra, anche in questo lavoro: ora siamo sufficientemente informati dell'inizio del loro rapporto epistolare nel 1926 tramite Vittorio Enzo Alfieri, di una prima pausa dopo la lettera del luglio 1926 e la successiva polemica fra Alfieri e Cantimori, di una sua ripresa nel 1928 fino alla recensione crociana del novembre 1928 alle Osservazioni sui concetti di cultura e di storia della cultura del giovane laureato (Prosperi, LIV-LV e note 98, 99 e 101). «A parte qualche graffio - ha osservato Cordié - in complesso il Cantimori non si sarebbe dovuto dolere [della recensione crociana] come di una estrosa condanna della sua fervida attività ispirata all'attualismo»: [146] ancora Cordié testimonia invece che - al di là del tono rispettoso della lettera di replica del 15 dicembre 1928 - egli ne restò urtato e irritato. Sembra, a questo punto, che i loro contatti epistolari diretti si siano di nuovo diradati, probabilmente interrotti: Cantimori evita di rivolgersi direttamente al filosofo e lo fa ancora tramite Alfieri, sicché è dalle lettere di Croce a quest'ultimo che possiamo ricavare elementi non irrilevanti per gli anni successivi. Dal 3 al 5 febbraio del 1932 Croce è a Ginevra per ricerche sul marchese Caracciolo e su altri calvinisti italiani come Giulio Cesare Pascali, stende il saggio sul primo nella seconda decade di marzo. Nel maggio, Cantimori, che è a Basilea per i suoi studi ereticali, gli fa chiedere da Alfieri notizie su Giovan Bernardino Bonifacio, marchese d'Oria: Croce gliene chiede, a sua volta, sul Caracciolo e su eventuali documenti basileesi che lo riguardino, avvertendo di aver già fatto le ricerche a Zurigo e a Ginevra. Questa richiesta allarmò lo storico, che temette una sovrapposizione di studi e, ancora da Alfieri, fece ansiosamente chiedere a Croce quali fossero i suoi piani di studio sulla Riforma. «Potete rassicurare il Cantimori. - rispose il filosofo l'8 giugno 1932 - Io non mi tratterrò in quegli studi sulla riforma italiana. Ho studiato soltanto la figura del Marchese del Vico e il significato del calvinismo in rapporto con gli estremisti italiani, che erano razionalisti in formazione. Ma già ora il mio pensiero si è volto ad altro». Tutto questo dialogo per interposta persona dovette irritare non poco Croce, per il sospetto, non ingiustificato a detta di Alfieri, che Cantimori non gli scrivesse direttamente o non gli mandasse le sue pubblicazioni per timore di compromettersi, ben sapendo che la corrispondenza del filosofo era strettamente controllata: «sono uomini senza spina dorsale», [147] esclamava il 7 novembre 1932, dopo che non aveva ricevuto da Cantimori, come aveva evidentemente sperato, il lavoro Sulla storia del concetto di Rinascimento.

62. Seguirono la pubblicazione, sulla Critica del 1933, del saggio su Caracciolo (con la difesa della funzione storica del calvinismo e la critica degli «estremisti» italiani già contenuta - come s'è visto - nella lettera ad Alfieri dell'8 giugno 1932), la replica di Cantimori nella Prefazione (datata: Pavia, maggio 1933) alla traduzione dei Riformatori italiani del Church uscita ai primi del 1935, la recensione di Croce a quest'ultima, contenente una risposta alle obiezioni di Cantimori, sulla Critica del 20 maggio 1935, la rassegna cantimoriana del '36 intorno alla più recente storiografia sulla Riforma in Italia e sui Riformatori italiani all'estero, che conteneva un'ultima messa a punto sulle tesi di Croce. Riassumiamo schematicamente: Croce difendeva e valorizzava i germi di modernità insiti nel calvinismo, sia sul piano speculativo (la difesa del dogma trinitario contiene «l'esigenza del concetto speculativo, che non è né l'unità astratta né l'astratta molteplicità, ma l'uno che è molteplice e il molteplice che è uno, e di una logica adeguata, non più intellettualistica e statica, ma dialettica e dinamica») sia sul piano politico («la dottrina della predestinazione precorre qualcosa di più importante e di più comprensivo, che è il principio della libera gara per l'elezione e la prevalenza del migliore, e perciò dell'eguaglianza dinanzi alla legge, ma non della eguaglianza materiale dei singoli, la quale condurrebbe alla stasi e all'arresto della storia umana. Al calvinismo e al suo concetto della predestinazione si deve quanto di austero è trapassato nel liberalismo, quanto esso ritiene di nemico al volgo e di aristocratico, di doloroso e di fiducioso insieme, di umile e di ardito»). Croce sapeva che queste potenzialità si sarebbero sviluppate nei secoli (ed egli pensava certo alla Ginevra di Rousseau, di Mallet-du Pan, di Constant, di Sismondi, di M.me de Staël, quella che per lui era la culla del liberalismo europeo) e che sulle prime la riforma ginevrina aveva conosciuto i roghi e le repressioni, ma li giudicava «un necessario momento conservatore dopo compiuta una così grossa rivoluzione come l'abbattimento dell'autorità papale e la rottura dell'unità ecclesiastica dell'Europa, e nell'insorgente pericolo dell'anarchia delle opinioni, che faceva temere la perdita di quanto si era acquistato, il dissolvimento della riforma stessa e una reazione che avrebbe ricondotto a più pesante idolatria». Da qui un giudizio critico sugli antitrinitari, gli antipredestinatari, sul piano speculativo estranei alla dialettica, e semmai precursori del «razionalismo» e dell'«intellettualismo» moderni (e non eran queste per Croce qualificazioni positive), sul piano politico propensi a teorie egalitarie: Croce insisteva sul nesso che si era stabilito fra antitrinitarismo e anabattismo, «due sètte che furono comprese nella medesima avversione e quasi tra loro identificate, e, in verità, coltivando [...] il radicalismo intellettualistico e l'egualitarismo, tendevano a distruggere tutti i dogmi religiosi e, nelle loro conseguenze pratiche, menavano all'estremo democratismo e al comunismo». [148]

63. Nella prefazione a Church, Cantimori controbatteva alla critica 'speculativa' dell'antitrinitarismo, mostrando che Calvino e gli ortodossi «non difesero quel dogma per il suo valore filosofico, ma perché la negazione di esso minava l'autorità della loro nuova gerarchia: non lo difesero infatti filosoficamente, ma politicamente, cioè all'occorrenza con le pene che allora venivano comunemente riconosciute, della prigione, e del rogo»; ma raccoglieva e sviluppava (dandole, però, un segno tutto diverso) l'indicazione crociana del risvolto politico-sociale dell'antitrinitarismo e del suo nesso con l'anabattismo e quindi del legame col «popolo» di alcune delle più evolute regioni italiane che gli antitrinitari avevano cercato di instaurare. [149] Dalla prefazione inedita alla traduzione tedesca degli Eretici e da altri documenti pubblicati da Prosperi, ora conosciamo l'importanza che questa discussione pubblica con Croce (Cantimori accenna anche a quella epistolare, ma la sua lettera del 13 aprile 1935, che pubblicheremo più oltre, e quella del 2 giugno 1936, che Prosperi ha messo a nostra disposizione, non sembrano, sotto questo riguardo, molto significative) ebbe nel lavoro cantimoriano: egli aveva già compreso che una storia come quella degli eretici italiani non poteva essere meramente teologico-filosofica, ma doveva divenire «storia della cultura», ora ne comprendeva il carattere storico-politico: essa diventava «storia delle dottrine e dei movimenti politici». Urgeva, perciò, un passaggio risoluto dalla 'filosofia' alla 'storia', che già si nota nel primo abbozzo manoscritto di quello che poi sarà il volume del 1939, che risale all'estate del '34, di cui ora conosciamo i tratti fondamentali (Prosperi, Introduzione, XXXV-XXXVIII; «Eretici», 12-13).

Ma nel dibattito erano avvertibili anche questioni politiche piuttosto intricate. Si assisteva a un apparente scambio di ruoli: Cantimori, di cui Croce conosceva il fascismo militante, si faceva paladino di eretici che resistevano intrepidamente all'intolleranza religiosa, cattolica e calvinistica, e andavano transfughi per l'Europa libertatis causa; il filosofo liberale in qualche modo giustificava le repressioni calvinistiche e prendeva le distanze da coloro che, da non pochi, venivano indicati come gli antesignani della libertà religiosa in Europa. Croce stesso avvertiva l'ambiguità e se ne usciva, nella recensione alla traduzione italiana del Church, con le celebri parole:

64. La polemica era sanguinosa, ma poneva (e pone) dei problemi reali (Vivanti, Le approssimazioni, 912; Prosperi, «Eretici», 727), sulla circolarità esistente (o meno) fra l'impegno politico del Cantimori di allora (ma - come Prosperi rileva - anche di quello comunista) e i suoi interessi storiografici. Ma cos'erano per lui gli 'eretici' che veniva studiando? e il concetto di tolleranza religiosa da essi elaborato? Richiamando l'ambiente di mazzinianesimo sovversivo in cui Cantimori si formò, abbiamo già accennato al tratto 'libertario' che ne derivò: chi ha studiato quel mondo, sa bene che questo sovversivismo si è variamente intrecciato alla scelta fascista che molti operarono, senza scomparire del tutto: «vecchio fascista anarchico» si definiva scherzosamente lo storico in una lettera a Giulio Einaudi del 29 novembre 1956 (PSC, 794). Sasso ha poi acutamente richiamato il tema 'libertario' presente - al di là delle prime apparenze e delle stesse scelte politiche del suo autore - nell'attualismo gentiliano, per il quale «giudice supremo delle istituzioni, delle 'chiese', dei governi cristallizzati in sistemi giuridici divenuti dogmi oppressivi, è la libertà, norma sui, dello spirito». [151] L'interesse per una cultura d'opposizione, per gli sforzi di rinnovamento etico-culturale del mondo italiano dei quali, ancora nel 1935, sottolineava la «perenne tragicità», [152] affonda dunque le sue radici in questo retroterra politico e filosofico.

Ma è poi necessario specificare meglio il discorso e seguire, sia pure con grande rapidità, lo snodarsi degli interessi ereticali di Cantimori. Ci si accorgerà allora agevolmente che il tema della tolleranza e della libertà religiosa è importante, ma non centrale nel suo approccio: fin dal saggio sul Boscoli gli eretici italiani sono gli eredi dell'Umanesimo italiano e dei suoi valori, che tuttavia superano il preteso carattere 'estetico', tutto soggettivo e 'letterario', del Rinascimento, entrano nell'attualità della vita concreta, fondano il mondo moderno. Nel saggio sull'Ochino, emerge un altro tema, quello della 'italianità' del loro pensiero (si ricordino le coeve riflessioni cantimoriane sulla nazione): essi, ricollegandosi alla tradizione italiana dell'Umanesimo e innestandone alcuni temi nella esperienza della Riforma, garantiscono loro una circolazione europea e sottolineano l'importanza del contributo italiano alla comune civiltà. [153] Nella lunga recensione (settembre 1932) all'edizione americana degli Italian Reformers di Frederic C. Church (è uno scritto interessante, perché vi si avvertono le prime acquisizioni, anche documentarie, del soggiorno a Basilea) si critica il carattere prammatico dell'opera, tutta intenta ad analizzare l'opera del 'riformatori' italiani in funzione della riforma ecclesiastica, mentre l'originalità e l'importanza del gruppo italiano indipendente sta altrove, nello «sforzo sempre più chiaro e consapevole» compiuto da questi eredi della critica umanistica del Valla «di dissolvere la astratta teologia in religiosità etica, in pura religione, di procedere dalla trascendenza esteriore legale della legge divina di Calvino alla sua interiorità, dal misticismo nebuloso allo spiritualismo purificato dalla ragione»: [154] questa linea si disperderà poi nel deismo e nell'illuminismo, ma c'è da credere che il giovane attualista, che aveva discusso pochi anni prima del rapporto fra le religioni ufficiali e la religiosità di cui si faceva portatore il movimento filosofico italiano, si sentisse, in qualche modo, erede delle aspirazioni di quegli uomini.

65. Nella prefazione alla traduzione italiana della ricerca di Church si insiste - lo abbiamo visto - sul fatto che questi irregolari non sono degli isolati e intrattengono legami col mondo dell'anabattismo popolare, spesso con gente di umile condizione: gli eretici, dunque, sono la negazione del letterato italiano, mostrano «storicamente la strada, drammatica, rischiosa, ma conseguente, che alcuni intellettuali italiani, partendo da quelle esigenze di rinnovamento spirituale [...] avevano percorso». [155] Nello stesso scritto, Cantimori chiarisce il loro (e il suo) concetto di tolleranza religiosa, distanziandolo da quello dei «loro esaltatori positivistici» e da «quello della tolleranza-indifferenza». Esso non consiste tanto in una garanzia giuridica della libertà religiosa, ma in una posizione teoretica, nel «superamento della posizione dommatico-mitologica del problema teologico»: la conseguente dissoluzione della teologia in religiosità, della Chiesa autorità e gerarchia in riunione di uomini delle stesse convinzioni e degli stessi principî, comporta una «necessaria distinzione fra organizzazione giuridica, politica e istituzioni teocratiche (teologico-giuridiche) da una parte e pensiero religioso dall'altra, e [il concetto] della autonomia del pensiero teoretico da ogni implicazione 'contingente', politica, pratica, che piaccia porvi surrettiziamente per scopo polemico». Non è più necessaria una chiesa istituzionale che imponga obbedienza a certe formulazioni dogmatiche, ma è l'«autonoma e intima eticità» del pensiero, «manifestantesi direttamente nella rettitudine delle azioni e nella radicale e piena attuazione dei propri postulati, [l'] unico fondamento per poter esigere (non imporre) che gli altri vi ubbidiscano». [156] La tolleranza nasce, quindi, dalla dissoluzione delle Chiese, dalla prevalenza della 'religiosità' sulla 'religione' insite nelle dottrine degli antitrinitari: l'affermazione della libertà religiosa non era il presupposto, ma un corollario della loro dottrina teologico-politica, che andava quindi studiata nella sua positività, nella sua intierezza, non solo in relazione a tale problema, e inserita in una storia del movimento generale degli spiriti religiosi del Cinquecento, e solo in sottordine in quella della Riforma. I Socini - afferma nel 1929 -sono i «fondatori del moderno razionalismo europeo» (PSC, 70), ed essenzialmente in grazia di ciò - possiamo aggiungere - fautori della libertà religiosa. Una tale impostazione distingueva subito le ricerche ereticali che Cantimori stava compiendo da quelle del liberale Francesco Ruffini, iniziate nella prima metà degli anni '20 e poi portate avanti fino alla morte, nel 1934. Questa distanza era già stata colta con grande lucidità da Marino Berengo [157] ed ora Prosperi ha riportato una pagina di Cantimori, che precedeva la stesura provvisoria degli Eretici, quella del '34, in cui la distinzione fra storia «positiva» delle idee ereticali, da lui perseguita, e quella «giuridica» di Ruffini, era chiaramente, direi programmaticamente, enunciata (Prosperi, Introduzione, XXXIV).

66. In una pagina del Caracciolo, e poi nel necrologio di Ruffini, anche Croce prendeva le distanze da questa impostazione eminentemente giuridica. [158] Tuttavia, le riserve di Cantimori avevano implicazioni ancora più vaste. Croce esaltava il «nuovo abito morale» favorito dall'affermarsi del calvinismo e la «funzione mediatrice» che ebbe nel «mondo moderno e laico»:

Partendo dal calvinismo, delineava una genealogia del mondo moderno, che era essenzialmente una genealogia dell'etica e delle istituzioni liberali. Cantimori non accettò mai questa identificazione: com'è noto, ben presto maturò ed espresse la convinzione che i fenomeni storici vanno giudicati di per sé, non per caratterizzare valori potenziali, e maturò quindi un'insofferenza verso ogni considerazione tendenzialmente teleologica (Vivanti, Intorno, 789, 792), ma è innegabile che anch'egli avesse, almeno in quegli anni '30, una visione complessiva della storia moderna. Solo le attribuiva un 'senso' che era diverso da quello di Croce. Corrado Vivanti ha richiamato l'attenzione sul saggio del 1938 Umanesimo e Riforma, rimasto per allora inedito: Cantimori vi esplicita quanto si coglie in molti dei suoi scritti di allora, cioè la netta «antitesi» che egli pone fra l'Umanesimo (le «humanae litterae, che fioriscono in Italia nel Quattrocento e che alla fine di questo secolo e ai primi del seguente si diffusero in tutta l'Europa») e la Riforma, luterana e calvinista in ispecie, che si mostra avversa al programma umanistico, alla sua fede nelle capacità degli uomini e nella ragione umana. La Riforma e la Controriforma svolgono un'analoga funzione 'normalizzatrice', ciascuna nel loro ambito, dei valori, delle speranze, dei fermenti dell'Umanesimo, che, nella nuova atmosfera europea, solo sopravvivono nei gruppi ereticali, prevalentemente italiani, dispersi, isolati per l'Europa. [160]

67. E' interessante vedere come in quegli anni, per esempio nelle voci dedicate alle varie correnti della Riforma nel Dizionario di politica, egli delineasse i loro esiti politici. Il luteranesimo sfocia in una «mobilitazione» degli spiriti in favore dell'autorità politica, la quale riceve impronta divina: «E certo da questo fenomeno - scrive Cantimori - si deve partire per comprendere le origini della dottrina hegeliana dello stato etico, la quale, pur avendo carattere schiettamente teorico e filosofico, era stata preparata dalla lunga esperienza luterana». [161] Molti degli studiosi recenti, in particolare Luisa Mangoni, si sono poi soffermati sul rilievo attribuito da Cantimori alla presenza e al ruolo della teologia luterana e calvinista nella vita etica e culturale e nelle forme terribili e sconcertanti di lotta politica della Germania a lui contemporanea (Mangoni, XXIII-XXVIII, XXXIII-XXXVII). Diverse e non convergenti sono le 'valenze' politiche del calvinismo: a Croce era parso, anni prima, che ne derivasse «il principio della libera gara per l'elezione e la prevalenza del migliore», Cantimori afferma ora che il calvinismo «contribuì moltissimo a creare quella buona coscienza farisaica per la smania di guadagno del capitalismo, che ancor oggi, dopo che i motivi religiosi sono scomparsi, permane in varie forme [...] nella società americana in ispecie e in quella anglosassone in genere, ed ha costituito una delle basi dell'antico liberalismo, con la sua austerità e rigidezza di costumi e col suo progressismo industrialistico, oltre che col suo individualismo». Di più: Cantimori avverte la tendenza a passare dalla elezione individuale a quella di un intero popolo:

Sono pagine scritte con tutta probabilità fra il 1938 e il 1939, e - riprendendo la già citata osservazione di Momigliano - possono essere lette «in chiave fascista o in chiave comunista»: le abbiamo ricordate qui, perché l'estraneità di Cantimori a certi nuclei di valori trapassa, sostanzialmente immutata, dall'una all'altra fede politica.

68. La tradizione a cui Cantimori si richiamava (e che contrapponeva alle varie che scaturivano dalla Riforma, ma anche a quella cattolico-controriformistica che tanto aveva combattuta nell'Italia post-concordataria) prendeva dunque le mosse dall'Umanesimo italiano e dagli eretici, che ne avevano serbato i valori nell'Europa della Riforma e della Controriforma, che avevano fondato il «razionalismo», il «pensiero moderno», il «mondo moderno» (per il giovane Cantimori sono espressioni equivalenti): l'idealismo ne era l'estrema propaggine e l'etica dell'idealismo era quella con cui il fascismo voleva plasmare il popolo italiano. Nel 1929, polemizzando in nome della 'modernità' del fascismo contro ogni sua interpretazione in chiave chauvinistica, Cantimori esclamava:

Coglieva perciò nel segno Michele Ciliberto, quando avvertiva che, in questi anni, «si poteva essere fascisti e corporativisti (in un certo modo, naturalmente) e studiare Bernardino Ochino, avviando una ricerca sul movimento ereticale italiano»; [163] partendo da una concezione del fascismo come quella che Cantimori aveva elaborata, lo si poteva considerare lo sbocco di una tradizione filosofica e politica che prendeva le mosse dall'Umanesimo italiano e, attraverso gli eretici, aveva dato origine al pensiero moderno; e contrapporre tale tradizione a quella controriformistica e reazionaria, ma anche a quella calvinistico-liberale.

Abbiamo visto come, dopo la discussione con Croce del 1933-35, Cantimori andò valorizzando i contenuti politico-sociali del pensiero e dell'azione degli eretici italiani, soprattutto il loro rapporto con l'anabattismo popolare in Italia: sono questi elementi, non tanto la questione della tolleranza religiosa, che costituiscono il trait d'union fra le ricerche ereticali e quelle successive sugli 'utopisti e riformatori' italiani fra '700 e '800. [164] Nel corso di queste, come scriveva a Werner Kaegi il 25 settembre 1942, «quasi di sorpresa era ritornato nelle indagini di storia religiosa, trovando in quegli uomini [utopisti e riformatori] una religiosità entusiastica, che li presenta in tutt'altra luce, da quella nella quale finora eran veduti»; vi aveva trovato, insomma, un aspetto 'ereticale' che si affrettava a comunicare all'amico (Mangoni, XV nota 9). Anche nell'Introduzione agli Utopisti, poi, dopo aver insistito sulla loro «convinzione che il rinnovamento del genere umano, millenaristicamente atteso [...] dovesse coincidere necessariamente [...] con una trasformazione religiosa» e che quindi la rivoluzione da loro vagheggiata dovesse essere, nel contempo, sociale, morale e religiosa, Cantimori ritornava sul tema della tolleranza, avvertiva come in questi ambienti se ne trattasse spesso e poneva un nesso con eresie specifiche del periodo della Riforma e della Controriforma. [165] Ma anche in questo caso sono illuminanti le osservazioni di Berengo: nel Cantimori studioso delle idee di riforma sociale la tolleranza è strettamente connessa con l'uguaglianza, non deriva dalla battaglia illuministica di Voltaire, ma dalle utopie egalitarie di certo illuminismo e, retrocedendo alle sue radici prime, ai grandi temi dell'eresia cinquecentesca. Fra questa tolleranza tesa verso l'uguaglianza dei beni e quella intesa come garanzia costituzionale di diritti individuali e misura di concordia civile, quella lato sensu liberale, insomma, esiste una «frattura»: [166] il Cantimori, ormai intimamente orientato verso il comunismo, guardava alla prima più che alla seconda.

69. Abbiamo cercato sommariamente di mostrare come e perché Cantimori sia sempre stato «costitutivamente lontano dalla Weltanschauung crociana» [167] e di individuare i nessi, non così evidenti, fra il suo essere stato storico di perseguitati, di utopisti e di ribelli e le sue scelte politiche, prima e dopo la guerra. Allo storico di problemi ereticali o della cultura religiosa del Cinquecento o del giacobinismo italiano, che miri a una ricostruzione della storia del suo problema e quindi alla valutazione dell'incremento reale (critico, documentario, ermeneutico) apportato da Cantimori a tale storiografia, questi aspetti interesseranno marginalmente: per lo studioso della cultura italiana fra le due guerre appaiono di notevole interesse. Tutto ciò non esaurisce però il problema dei suoi atteggiamenti verso Croce, che, in un uomo così spesso lacerato e complesso, furono non semplici: sentì di muoversi in un ordine diverso e lontano e persino opposto rispetto al suo, al tempo stesso ne desiderò il rispetto e la considerazione e dal filosofo, che sapeva cogliere come pochi l'ambiguità di certe situazioni, ebbe talora parole pungenti. Più o meno consapevolmente, gli attribuì una funzione di vaglio intellettuale (e morale), a cui non ci si poteva sottrarre. Due giorni dopo la sua morte, il 22 novembre 1952, scriveva all'einaudiano Luciano Foà a proposito di alcune traduzioni di Scheler e di Husserl che l'editore Einaudi progettava: «a forza di quella gente e di quei discorsi, i tedeschi si son trovati disarmati intellettualmente di fronte a chi seppe trarre le conseguenze dell'irrazionalismo. E noi li proponiamo di nuovo ai nostri italiani? [...] E ora, che è morto il Gran Vecchio? Mi copro la testa di cenere, e profetizzo tempi brutti. Dixi et salvavi, con quel che segue. Corsa all'abisso» (PSC, 822 nota 37).


Sommario | I. Carlo Cantimori e la tradizione mazziniana | II. Da Ravenna a Pisa: le prime esperienze culturali e politiche (1919- 1928) | III. Il fascismo di Delio Cantimori | IV. Bolscevismo e fascismo | V. Il giudizio politico sul nazionalsocialismo | VI. Il 'mondo di ieri': il liberalismo e Benedetto Croce | VII. I punti di riferimento politico-culturali | VIII. Verso un nuovo 'sistema di verità': Cantimori dal fascismo al comunismo | Appendici I-VI.

 


 

[135] Cit. in Petersen, Hitler e Mussolini, 38-39.

[136] Un'analisi esemplare ne traccia N. Matteucci, «Liberalismo», in Enciclopedia del Novecento, vol. VIII (Supplemento), (Roma: Istituto dell'Enciclopedia italiana, 1989), 559-572.

[137] D. Cantimori, rec. ad A. Thibaudet, Les idées politiques de la France (Paris, 1932), in Leonardo, 4 (1932): 220-221, 221.

[138] Leonardo, 7 (1936): 267-269, 267.

[139] Id., rec. a N. M. Butler, Points de vue, II: Centre européen de la Dotation Carnegie. Publications de la conciliation internationale (Paris, 1934), in Leonardo, 7 (1936): 383. Sull'anti-americanismo culturale e politico di Cantimori ha insistito Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 154-155, 188-189 e passim. Sui dibattiti attorno a Tocqueville in quel periodo, cfr. Pertici, «Giorgio Candeloro», 88-95.

[140] Sul liberalismo come forma possibile di «fariseismo», cfr. Cantimori, rec. Thibaudet, 47. Sulla Kulturkritik di Nietzsche e di Marx molto importante è la rec. del 1933 a H. Fischer; Nietzsche Apostata, oder die Philosophie des Aergernisses (Erfurt, 1933), ora in PSC, 154-159. Su Fischer, giovane intellettuale Nationalrevolutionär, notizie in M. Montinari, «Delio Cantimori e Nietzsche», in Storia e storiografia. Studi su Delio Cantimori, atti del convegno tenuto a Russi (Ravenna) il 7-8 ottobre 1978, a cura di B. V. Bandini (Roma: Editori Riuniti, 1979), 128-151, 138-141, ma tutto questo saggio è importante per notizie e considerazioni.

[141] D. Cantimori, rec. a N. Cuneo, Spagna cattolica e rivoluzionaria (Milano, 1934), in Leonardo, 5 (1934): 468. Anche nel '37, Cantimori insiste sulla «cultura e formazione tedesca» di Ortega (PSC, 637) facendo evidentemente riferimento ai suoi studi a Lipsia, Berlino e Marburgo fra il 1905 e il 1907, per «inghiottire», «divorare» (come ebbe a esprimersi ripetutamente) la cultura tedesca.

[142] L. Volpicelli, «Libri sulla 'crisi'», in Civiltà fascista, 5 (1938): 560-566, 564. Oltre al testo di Huizinga, nella traduzione einaudiana del 1937 curata da Barbara Allason, Luigi Volpicelli prendeva in esame Daniel-Rops, Quel che muore e quel che nasce (Brescia, 1937), A. Capitini, Elementi di un'esperienza religiosa (Bari, 1937), U. Spirito, La vita come ricerca (Firenze, 1937).

[143] ag.[ostino] n.[asti], «La crisi della civiltà», in Critica fascista, 16 (1937-38): 174. «Secondo questa diagnosi - scrive Nasti - la civiltà umana è in pericolo, anzi è certamente sull'orlo dell'abisso perché gli uomini non considerano più al primo posto i fattori spirituali della vita e la cultura. A questo punto il lettore ha già bell'e capito. E difatti, a poco a poco, l'A. vuota il sacco. [...] Ma l'A. alla fine dice di essere un professore, e allora si capisce tutto. Siamo di fronte all'ennesimo caso di un sacerdote della cultura, il quale, vede tutto l'universo, e la realtà, e la vita, in termini di cultura; per cui se vede in giro qualche teoria che non quadra perfettamente con tutta la sua formazione mentale crede già di vedere oscurarsi il cielo e di sentir tremare la terra di terribili brividi. Ma no, professore, tranquillizzatevi. Voi ce l'avete coi regimi totalitari, particolarmente col nazismo (una delle cose che vi fanno sorridere di compatimento è il razzismo) e con certe dottrine professate in Germania per sistemare teoricamente il regime nazista. Ebbene, non temete per la cultura e lo spirito. La vostra cultura è superata, non la cultura. E pensate alla salute, ché tutto s'accomoda. E la civiltà non perirà. Tutt'al più cambierà di tono e di sapore. Che c'è di male?». Per altre recensioni alla traduzione italiana, cfr. G. Turi, «I limiti del consenso: le origini della casa editrice Einaudi», in Id., Il fascismo e il consenso degli intellettuali (Bologna: Il Mulino, 1980), 193-375, 264-267.

[144] A. Momigliano, «L'Agonale di J. Burckhardt e l'Homo ludens di J. Huizinga» (1974), in Id., Sui fondamenti della storia antica, 410-414, 412. Molte fondate obiezioni alle critiche cantimoriane del 1936 e del 1962 sono in O. Capitani, Introduzione a J. Huizinga, La mia via alla storia e altri saggi (Bari: Laterza, 1967), V-LI, V-VI, XLV-XLVI.

[145] Sono omessi i riferimenti alla «rivoluzione sociale che in Europa si va compiendo» e all'irritazione che il libro suscita necessariamente nel «lettore di un paese così impegnato nella lotta politica e sociale di oggi come questa nostra Italia»: lo aveva già notato Turi, «I limiti del consenso», 266, a giudizio del quale Cantimori era allora «forse già 'semi-marxista' - come si dichiarerà più tardi -, ma comunque attivamente impegnato nella difesa degli orientamenti politici del regime» (265).

[146] Cordié, «L'alunno perfezionando», III, 62 e 64-65.

[147] Croce, Lettere a Vittorio Enzo Alfieri, 65, 68-69, 73.

[148] Id., «Galeazzo Caracciolo marchese di Vico», in Vite di avventure di fede e di passione, a cura di G. Galasso (Milano: Adelphi, 1989), 228, 230, 225-226, 265. La «Nota del curatore» dà le notizie sulla composizione del Caracciolo (450-451) che abbiamo richiamate nel testo. La prima edizione di quest'opera uscì presso Laterza ai primi del 1936, ma con la data 1935.

[149] D. Cantimori, «Prefazione del traduttore», in F. Church, I riformatori italiani (Milano: Il Saggiatore, 1967), 15-30, 22-24. La prima edizione italiana dell'opera apparve nel 1935, presso la Nuova Italia editrice di Firenze.

[150] B. Croce, rec. a F. Church, I riformatori italiani (Firenze, 1935), in La Critica, 33 (1935): 223-224, poi in Pagine sparse, III, 482-485, 485. La replica conclusiva di Cantimori è in «Recenti studi intorno alla Riforma in Italia e ai Riformatori italiani all'estero (1924-1934)», in Rivista storica italiana, 53 (1936), fasc. I: 83-110 (Storici, 463-494, 480-481).

[151] G. Sasso, «Federico Chabod, la storia del pensiero, la storia delle idee», in Il guardiano della storiografia, 176-177. Su questa analisi di Sasso cfr. anche Belardelli, 393.

[152] D. Cantimori, rec. ad A. Corsano, Umanesimo e religione in G. B. Vico (Bari, 1935), in Giornale critico della filosofia italiana, 16 (1935): 91-94, 94.

[153] Cantimori, «Il caso del Boscoli», 255; Id. «Bernardino Ochino», 35.

[154] Id., «I Riformati italiani», in La nuova Italia, 3 (1932): 333-342, 342, ma anche 334.

[155] L. Perini, «Gioacchino Volpe e Delio Cantimori», in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere, storia e filosofia, s. II, vol. XXXVII (1968): 241-248, 246.

[156] Id., «Prefazione del traduttore», 25-26.

[157] «Al grande giurista piemontese quel che stava veramente a cuore erano non le idee di quel Matteo Gribaldi Mofa o di quel Francesco Stancaro che così mirabilmente studiava, ma la loro ostinata e intransigente difesa della libertà di pensare e di ricercare; e per le idee di quegli uomini il laico e liberale Ruffini provava un rispetto talora un po' freddo, non scevro di un'affettuosa ironia.[...] Per lui la battaglia animosamente combattuta dagli emigrati italiani del '500 era una battaglia per la libertà, il cui contenuto specifico era un po' astruso e magari puntiglioso; a Cantimori invece proprio quel contenuto interessava, e il suo naturale rivestirsi dell'idea di libertà religiosa» (Berengo, «La ricerca storica di Delio Cantimori», 925-926).

[158] Croce, «Galeazzo Caracciolo», 271-272; Id. , «Francesco Ruffini», in Pagine sparse, II, 96-98.

[159] Id., «Galeazzo Caracciolo», 228.

[160] D. Cantimori, «Umanesimo e Riforma», in Id., Umanesimo e religione nel Rinascimento (Torino: Einaudi, 1975), 142-157. Anche questa era una ripresa di espliciti giudizi gentiliani: v., per esempio, Gentile, «Il carattere dell'Umanesimo e del Rinascimento», in Giordano Bruno, 264.

[161] Id. , «Riforma», in Dizionario di politica, a cura del Partito Nazionale Fascista (Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana, XVIII [1940]), vol. IV, 53-57, 56.

[162] Id., «Calvinismo», ibid., I, 365-368, 367.

[163] M. Ciliberto, «Cantimori e gli eretici. Filosofia, storiografia e politica tra gli anni venti e gli anni trenta», in Storia e storiografia, 152-193, 177, in polemica contro quanti «hanno visto nell'interesse per gli eretici, fin dall'inizio, il segno - e l'effetto - d'una scelta politica orientata in senso antifascista».

[164] Su questo aspetto aveva già ben visto Miccoli, Delio Cantimori, 180-185, correggendo l'analisi di Walter Maturi.

[165] Cantimori, Utopisti e riformatori, 17-19.

[166] Berengo, «La ricerca storica di Delio Cantimori», 933.

[167] Ciliberto, Intellettuali e fascismo, 51, ma cfr. anche 75-81, 133-136, 250-255