Alessandro Arbo
Gli uccelli cantano davvero?*
Maestro - Dunque dimmi, per favore: non ti sembra che, come l'usignolo, così tutti coloro che cantano bene siano condotti da una certa sensibilità (...)?
Alunno -
Li considero molto simili.
Maestro - E dunque coloro che li ascoltano volentieri
senza avere questa scienza non sono forse da paragonare alle bestie? Vediamo
elefanti, orsi e alcune specie di animali che si muovono secondo il canto e gli
stessi uccelli che si dilettano delle proprie voci (non lo farebbero infatti
con tanto impegno e senza un'intenzione interessata, se non provassero qualche
piacere).
Agostino, De musica, I 4, 5
Riportando la differenza tra l'uomo e l'animale all'uso della parola,
l'inizio dell'Essai sur l'origine des langues annuncia
una importante novità rispetto alla ricostruzione congetturale formulata nel
secondo Discours (1754): il
linguaggio non è il frutto dei progressi di una socialità naturale bensì, al
contrario, marca una discontinuità nell'ordine della natura. Sciogliendo le
incertezze di un ragionamento che lo aveva interpretato come il risultato di
fattori esterni, Rousseau lo riconosce come la prima istituzione sociale,
corrispondente a un atto libero che, appunto, distingue l'uomo dall'animale
(cfr. Bora 1989: 13). La tesi dà il via a una lunga catena di contrapposizioni
subordinate al compito di tratteggiare una sottile quanto precaria linea di
confine. A questo compito si riconduce anche una visibile tendenza ad abbassare
il modo di comunicare degli animali, cioè a smentire l'opinione che suggerisce
di interpretarlo come l'embrione del linguaggio. A maggior ragione questo
discrimine viene fatto valere nel considerare la sua forma di espressione
originaria e una delle osservazioni più caratteristiche a questo proposito si
legge nel capitolo XVI: «gli uccelli fischiano, l'uomo soltanto canta». A prima
vista si tratta soltanto di una precisazione terminologica, destinata a
rettificare un modo di dire desunto dal parlare comune; ma l'affermazione - che
tocca una nozione cardinale dell'apparato argomentativo rousseauiano -
corrisponde al disegno di una precisa strategia. Nel metterne in luce le
ragioni e le conseguenze, sarà opportuno risalire all'impostazione del tema
delle origini del linguaggio.
1. Castori, formiche, api
Fin dal primo capitolo Rousseau ci invita a osservare i limiti che
caratterizzano la «lingua naturale» dei castori, delle formiche e delle api:
questi animali comunicano soltanto agli occhi e sempre allo stesso modo (Essai, I, 7). Benché talvolta più efficaci
della parola, i loro movimenti non riescono a eguagliarne il potere, che
consiste nel «commuovere il cuore» e «accendere le passioni» (Essai, I, 5). L'attenzione si concentra
quindi, seguendo l'esempio di Du Bos e di Condillac, sulle forme
dell'espressione orale. Riprendendo un'osservazione formulata nel secondo Discours, lo scarto di maggior conto si
identifica nel passaggio dalle prime grida inarticolate alle articolazioni, vale
a dire a «modificazioni della lingua e del palato», che «non si producono da
sole, senza intenzione» (Essai, IV,
25). Questo livello si raggiunge solo attraverso l'esercizio dell'apparato
fonatorio.
L'argomento si riconosce nel solco di una tesi aristotelica: se in
generale i suoni emessi dagli animali non possono essere considerati alla pari
del linguaggio, è perché sono privi di articolazione (De int., 16a 28-29). In tal senso persino le
sillabe o le lettere di una parola, che da sole non significano nulla, possono
ritenersi superiori alle «voci indivisibili» delle bestie (Poet., 1456b 24-25). Ma questo rilievo
rappresenta solo il punto di partenza dell'Essai.
In realtà ciò che preme a Rousseau non è sottolineare la convenzionalità della
lingua dell'uomo, quanto riconoscere al suo interno un livello più originario
(in una direzione indicata già nel titolo, che ricalca l'esempio dell'Essai sur l'origine des connaissances humaines
di Condillac, confermando il debito già segnalato nel Discours, I, 50). L'esigenza che regola
l'economia del testo consiste nell'assicurare la vicinanza e insieme il
distacco della parola dalla natura. Il proposito di individuare una forma di
espressione in grado di salvare il tempo e la libertà si dispone lungo due
direttrici: la prima enfatizza la differenza tra la lingua dei gesti e quella
dei suoni; la seconda, tra il livello naturale e quello convenzionale.
La difficoltà maggiore consiste nel fatto che proprio l'avvento della
convenzionalità finisce per determinare il peggiore dei mali, rappresentato dal
caso limite dell'algebra (Essai,
VII, 48). Nulla di più preoccupante della lingua dei calcoli teorizzata da
Leibniz e che finirà per rappresentare il modello della logica di Condillac;
stigmatizzando questa conclusione, Rousseau approfondisce le ragioni della
differenza tra il linguaggio delle origini e quello attuale, cioè la varietà
del suono (Essai, VII, 45).
L'analisi conduce al motivo centrale del capitolo XII: il metro, le inflessioni
del tono, le iterazioni, la melodia, vale a dire tutte le componenti
dell'espressione musicale vanno ricondotte a un nucleo originario, specificando
la tesi che Vossius, Lamy, Du Bos, Condillac e altri avevano ripreso da una
fonte più antica: «dire e cantare erano in altri tempi la stessa cosa, dice
Strabone» (Essai, XII, 79).
Se il canto rappresenta l'oriente della lingua, non ci si dovrà stupire
del fatto che le prime storie venissero intonate, e che lo stesso destino
spettasse alle leggi. A governare il riferimento è ancora l'antica (e discutibile)
fonte aristotelica (Probl., XXVIII,
64-65) [1], comune alla
cultura del tempo [2].
Rispetto a Condillac (1746: II, I, VIII, § 72, 254), che aveva evidenziato le
possibilità di articolazione di una traccia sonora intesa come sussidio
mnemonico, Rousseau inverte l'ordine congetturale: l'utilità e il calcolo sono
venuti dopo, prima c'erano i sentimenti e le immagini, che si sono tradotti
spontaneamente in ritmo e in suoni. L'intonazione rappresenta l'originario lato
emotivo del linguaggio, seguita dall'articolazione, che esprime il pensiero. Si
definisce così una dicotomia che la prospettiva evoluzionistica di Spencer
(1858) avrebbe cercato di fondare su una legge organica in grado di assicurare
le corrispondenze. Ma a Rousseau interessa soprattutto insistere sulle
precedenze: si è formato prima il canto, che in ogni caso - ma senza che ciò,
all'apparenza, intacchi le ragioni della successione - appare regolato da una
legge dell'intervallo: si parlava «attraverso i suoni e il ritmo quanto
attraverso le articolazioni e le voci».
2. Dal cuore all'orecchio
Nonostante il programmatico discrimine segnalato in apertura, già il XV
capitolo non può evitare il paradosso per cui, nell'illustrare come «le nostre
sensazioni più vive agiscono per lo più attraverso impressioni morali», si
finisce col parlare soprattutto di animali. Con un chiaro distacco dalle tesi
materialistiche del secolo, Rousseau osserva che se la musica ci commuove non è
in virtù delle vibrazioni che i suoni producono sui nervi; in questo caso i
suoni agiscono «come segni delle nostre affezioni, dei nostri sentimenti».
Basterà osservare in proposito come il cane abbaia quando sente un suo simile
abbaiare, e il gatto si agita quando sente un miagolìo, mentre la stessa
reazione non ha luogo nel momento in cui l'animale si accorge che è il padrone
che rifà il verso. «Perché questa differenza di impressione, dal momento che
non ve ne è affatto nella vibrazione delle fibre, tanto che lui stesso si era
dapprima ingannato?» (Essai, XV,
89). Si tratterebbe del fatto che gli animali percepiscono «qualche cosa di
questo effetto morale». Ma la tesi aggira un riscontro più semplice: l'immagine
demotiva il suono, non corrispondendo alle attese dell'animale. Ciò che resta
invariato è soltanto il meccanismo secondo cui la sensazione viene confrontata
con una immagine interna.
Il cuore non centra: qui come altrove, l'immaginazione precede la morale.
Rousseau vorrebbe farci credere il contrario: sopra la sensazione, deve aprirsi
tutto un mondo morale. La prova sembra nascondersi in una constatazione di
relativismo: «Perché le nostre musiche più commoventi non sono altro che vano
rumore alle orecchie di un abitante dei Caraibi? I suoi nervi son forse di
un'altra natura che i nostri? Non vibrano allo stesso modo? O forse le
vibrazioni colpiscono molto gli uni e poco gli altri?» (Essai, XV, 89). La risposta a questi
interrogativi, la cui funzione retorica dovrebbe portarci a riconoscere la
precedenza di un livello morale (qui scambiato con una dimensione genericamente
culturale), potrebbe essere formulata così: un abitante dei Caraibi non si
commuove all'ascolto di una musica europea perché non può richiamare nulla che
possa assomigliarle, e dunque non può ripercorrere - se non per tratti minimi,
insufficienti alla riconoscibilità di strutture che si perdono nell'amorfo -
quel suono e coglierlo come segno. È inutile prendere in causa un livello
«morale», o la lingua e la cultura di una nazione, nell'osservare come non è il
«potere fisico» dei suoni a guarire dai morsi di una tarantola (Essai, XV, 89): anche in questo caso - sempre
che l'esperimento funzioni - basterà considerare il modo in cui l'orecchio ritraccia
il profilo di una melodia.
Ma Rousseau si sforza di ricongiungersi ai significati e ai valori che
una lingua mette in gioco attraverso le
sue componenti musicali. Solo queste ragioni gli sembrano in grado di sottrarre
la musica alla condanna di coloro che identificano nel suo movimento un piacere
sensibile: la gioia fisica del suono, simile al piacere che possiamo provare
nel contemplare l'oggetto del desiderio, va governata, a monte, dal
riconoscimento di una impressione intellettuale e morale. Perciò, se «ognuno è
colpito solo dai toni che gli sono familiari», bisogna sottolineare che «i suoi
nervi vi si prestano solo in quanto lo spirito ve li dispone: bisogna ch'egli
capisca la lingua che gli si parla perché ciò che gli vien detto possa metterlo
in movimento» (Essai, XV, 90). Anche
se di fatto talvolta non si può escludere questa condizione, accettarla in
linea di principio significherebbe negare qualsiasi valore alla musicoterapia.
Più in generale, nello spiegare il fatto che le cantate di Bernier abbiano
«guarito dalla febbre un musicista francese, ma l'avrebbero fatta venire a un
musicista di diversa nazione» (Essai,
XV, 90), non c'è bisogno di invocare la presenza di significati; basterà che
queste melodie gli siano familiari, cioè che lo siano i toni e gli accenti di
una lingua conosciuta, dai quali soltanto dipende - se ci atteniamo ai principi
- una specifica melodia nazionale.
Lo stesso vale per gli altri sensi, compreso il tatto. La conferma è
ricavata dall'esperienza erotico-immaginativa del contatto di un seno, dove «la
rotondità, la bianchezza, il turgore, il dolce calore, la resistenza elastica e
il successivo dilatarsi» non sembrano dare all'uomo «niente più che una
sensazione gradevole ma insignificante» (Essai,
XV, 90). Basterebbe invocare qualcuna delle esperienze narrate nelle Confessions, per sollevare un sospetto sulla
spiegazione secondo cui a eccitare l'immaginazione non sarebbero state le
caratteristiche sensibili (descritte senza risparmiare i dettagli) bensì «un
cuore pieno di vita». Ma nel demotivare l'ostinazione con cui viene bandito ciò
che è soltanto piacere dei sensi - con un argomento che si ritrova nella
tradizione che Kierkegaard avrebbe riconosciuto in ogni esperienza
erotico-sensuale - sarà meglio attenersi a ciò che il testo suggerisce
indicando le caratteristiche di un tratto che si rende operativo nel sentire: è il modo di leggere dei
ciechi, che ritracciano il rilievo di una superficie. L'erotismo della melodia
sembra funzionare allo stesso modo, con una produzione di immagini che dipende
dal profilo in cui sono iscritti.
La riprova di questo meccanismo proviene dall'unica esclusione che segna
questa teoria della sensibilità: il gusto. Alle sue sensazioni non sembra
aggiungersi «nulla di morale» (Essai,
XV, 90). Ma il fatto che non ci sia un virtuoso della tavola può ancora essere
spiegato con una mancata iscrizione, vale a dire con l'assenza di una melodia
di sapori in grado di distaccarsi dalla semplice somma delle sensazioni.
L'intenzione diretta del discorso di Rousseau impone alla riflessione sull'arte
un esercizio di separazione caratteristico della discussione post-cartesiana,
forse ricalcato sui termini con cui Condillac (1754: 554) aveva risposto alle
accuse di materialismo, vale a dire la distinzione delle «impressioni puramente
sensibili» dalle «impressioni intellettuali e morali che riceviamo attraverso i
sensi, ma di cui questi sono soltanto le cause occasionali» (Essai, XV, 90). Riecheggiando l'argomento
formulato da San Gerolamo nel commento all'epistola di San Paolo agli Efesi
(cfr. Fubini 1976: 62), bisognerà sottolineare che la via che dal cuore porta
all'orecchio è a senso unico, cioè non è possibile percorrerla nel verso
opposto, dalla sensazione al sentimento.
Ma qui peraltro è proprio una questione di sensi, e soprattutto di una
facoltà capace di raddoppiarli. A suggerirlo è lo stesso severo censore che,
nel qualificare l'esperienza dell'ascolto, ritrova il «cuore» in una
possibilità empirico-psicologica che richiama la necessità di fuggire la noia
già segnalata da Du Bos (1733: I, I, 43-45) e da Crousaz (1715: III, 12): i
tratti di una melodia catturano l'orecchio meglio di una somma di sensazioni
gradevoli ma insignificanti, che ben presto stancano (Essai, XV, 90). I veri canti sollecitano una
commozione e un sentimento morale di cui Rousseau intende sottolineare il
carattere originario; ma la necessità di tenere separato il cuore dalla
ragione, il tempo dallo spazio, il sentire dal calcolo, la passione dalla
logica, non può che riferirsi a un meccanismo sopraordinato a tutte queste
distinzioni.
Nel testo si moltiplicano i dualismi [3] , mentre si accentua
soprattutto quello che divide il colore («l'ornamento degli esseri inanimati»)
dal suono (l'annuncio di «un essere sensibile»). Sulla base di quanto
argomentato, dovremmo obiettare che il canto
degli esseri viventi non è il suono
con cui si annuncia un movimento qualsiasi; ma qui Rousseau taglia corto: il
suono, come il canto, deve considerarsi qualitativamente diverso dal colore. A
ogni senso bisognerà attribuire uno specifico dominio, sicché la conclusione
dell'esempio suonerà come una dicotomia semplice: «il dominio della musica è il
tempo, quello della pittura lo spazio» (Essai,
XVI, 92). A dispetto delle precedenti enunciazioni, Rousseau bandisce ogni
falsa analogia [4] e
difende l'integrità della musica col commento di una esperienza di profanazione
del tempo: non può essere un flautista automatico a suonare, bensì l'anima che
esso nasconde, l'inventore del meccanismo (Essai,
XVI, 92). Replicando a Jacques de Vaucanson - celebre fabbricatore di
giocattoli e di un meccanismo musicale quasi-vivente
- e soprattutto all'ambizioso macchinalista La Mettrie [5] , Rousseau ribadisce che
dietro al flautista c'è un uomo in carne ed ossa, benché meccanico di
professione. La distinzione fra arti dello spazio e arti del tempo ribadisce
l'unico senso in cui si dovrebbe percorrere la via che, nello scambio da cuore
a cuore, passa attraverso l'orecchio: il tempo viene prima, è più vicino
all'origine. Lo sottolinea la critica di un altro celebre meccanismo: il clavecin oculaire di Louis-Bertrand Castel [6], un equivoco dovuto allo
spirito di sistema o a una esagerata fede cartesiana, che ha spinto il suo
inventore ad avanzare false analogie fra colori e suoni. C'è uno scarto
incolmabile che separa la successione dei suoni dalla permanenza dei colori,
cioè il tempo dallo spazio.
Cavalcando una dicotomia valida da Roger de Piles fino a Lessing
(Mustoxidi 1920: 28), l'argomento espone in realtà tutto il suo carattere
sbilanciato e riduttivo. Sarebbe bastato rilevare il caso delle piante e dei
fiori, che dovranno occupare le cure del neofita botanico, per insinuare il
sospetto che nel colore possa esserci vita: ma qui non c'è possibilità di
accorgersene, tutto deve disporsi lungo la serie bipolare. Le analogie possono
valere solo per la ragione, non riguardano il senso - che tuttavia «ragiona» in
termini di assoluto e relativo: ogni colore è assoluto, ogni suono relativo.
Così un cielo luminoso resta avvolto nel silenzio, mentre il suono indica un
essere in movimento; e se la natura generalmente è colorata, del resto «genera
pochi suoni e, a meno che non si ammetta l'armonia delle sfere celesti, ci
vogliono degli esseri viventi per produrla» (Essai,
XVI, 93). Anche ammesso che in natura tutto debba ridursi a semplice rumore,
come è possibile che Rousseau qui non si accorga che qui sta qualificando come
vivente proprio quell'armonia che gli è apparsa poco prima come il simbolo per
eccellenza del degrado della musica? Di fronte al carattere morto della
pittura, la musica è chiamata a rappresentare uno strumento di mutuo
riconoscimento, permettendo all'uomo di avvertire la presenza dell'altro in
modo più persuasivo di quanto possa fare l'immagine (Essai, XVI, 94). La percezione del suono è il più
importante mezzo per varcare i confini della solitudine, un fantasma sul quale
avrebbe richiamato l'attenzione anche l'antropologia pragmatica di Kant (1798:
I, § 22, 44), portata a riconoscere nella perdita dell'udito un danno
irreparabile, una condanna all'isolamento più grave di quella dovuta alla
perdita della vista.
A marcare la precedenza è la voce modulata che l'uomo sembra riprendere
dalla natura, ma che in realtà deve essere considerata proprio ciò che lo
distingue dall'animale. Attraverso il canto l'uomo compie il più concreto
allontanamento dal livello del bisogno e delle necessità naturali. È per questo
che, nell'articolare le dicotomie di impianto, Rousseau specifica che «gli
uccelli fischiano, l'uomo soltanto canta» (Essai,
94). La precisazione si trattiene sul filo di una sottile ambiguità. Riguardo
all'articolazione del suono e all'emissione del fiato, fischiare (siffler) e cantare (chanter) non sono poi così distanti; il
fattore che li separa è il riferimento alla parola. Qui però Rousseau non può
riconoscerlo apertamente: ciò significherebbe infatti invertire l'ordine
sistematico del ragionamento, che riconosce nel canto un livello più originario
rispetto alla definizione del linguaggio verbale. La conseguenza tratta dal
principio suona dunque: «non si possono sentire né canto né sinfonia senza
dirsi all'istante: un altro essere sensibile è qui» (Essai, XVI, 94). Il mutuo riconoscimento deve avvenire nel
suono e non nella parola, come specifica l'intero paragrafo successivo,
illustrando le possibilità dell'abile musicista di «sostituire all'immagine
insensibile dell'oggetto quella dei movimenti che la sua presenza suscita nel
cuore di chi contempla» (Essai, XVI,
94).
Non così dettagliata, e anzi soppressa nei relativi articoli del Dictionnaire, è la differenza tra fischiare e
cantare. Se leggiamo le voci «Chanter» e «Chant», ci accorgiamo che la prima
definizione riguarda la produzione vocale di suoni variati, gradevoli per
l'orecchio, corrispondenti a un esatto campionario di intervalli e di modulazioni.
Il fatto che questi intervalli non debbano di necessità coincidere con «quelli
che si possono fissare con le note della nostra musica e riprodurre con i tasti
della nostra tastiera», bensì con «tutti quelli di cui è possibile trovare o
sentire l'unisono, e di cui si possono calcolare gli intervalli, in qualunque
modo», non fa altro che confermare il riconoscimento della funzione regolativa
(e costitutiva) di un diagramma in cui i suoni vengono a iscriversi, e che si
rende manifesto già a livello animale. A buone ragioni Agostino aveva segnalato
la precisione con cui il canto dell'usignolo rispetta le leggi dei numeri (De mus., I 4, 5). Prima che Olivier Messiaen
ne traesse lo spunto per una serie di elaborazioni musicali che avrebbero
aperto nuove vie alla ricerca del timbro e del ritmo, le trascrizioni di canti
di uccelli compiute in ambiente positivista avrebbero confermato non solo la
presenza di ritmi e intervalli, ma di una vera e propria costruzione motivica,
di un fraseggio, di una tecnica della variazione, ovvero di modelli
tecnico-compositivi e schemi morfologici analoghi a quelli del canto strofico
(Lach 1913: 540). Anche senza individuare in tutto ciò una espressione di
interiorità (Riemann 1900: 18), o le meraviglie di una immaginazione creatrice
(Hoffmann 1908: 160; cfr. Serravezza 1996: 248-49), basterà limitarsi a
riscontrare il progressivo perfezionamento delle funzioni riaggregative messe
in campo da una facoltà che appartiene di diritto al mondo animale.
La principale obiezione che Rousseau muove a questa tesi si concentra
nella nozione di imitazione. Se riconduciamo il canto all'intenzione di
imitare, allora dovremmo escludere da questa forma di espressione non solo gli
animali, ma anche i bambini, i selvaggi e i sordomuti [7]. È l'ipotesi che si
presenta nella revisione dell'articolo «Chant» per il Dictionnaire de musique, che riprende un
frammento elaborato per l'originario opuscolo di risposta a Rameau, ma scartato
dalla sua redazione finale (cfr. Rousseau 1755b: 368). Nel misurarsi con una
serie di complesse definizioni (cfr. anche Rousseau 1768: «Voix»), dopo aver
demotivato le spiegazioni fisiche di Dodart e aver cercato di individuare delle
ragioni di ordine sistematico interno nel «calcolo degli intervalli» e nella
«permanenza dei suoni», Rousseau esclude il semplice rapporto con la natura:
«il vero selvaggio non canta mai» [8]. Sfruttando lo stesso rapporto
di analogia del movimento, l'imitazione del canto sposta il riferimento dal
sentimento diretto - oggetto della musica - al suo segno naturale. Ciò che
distingue il canto dal grido, distaccandolo dal rumore di natura, è il fatto di
essere una imitazione artificiale di ciò che è naturale: le grida, i pianti ma
anche - in una operazione di ricongiungimento che sta particolarmente a cuore a
Rousseau (1768: 695) - gli «accenti della voce parlante o appassionata». Il canto può così riportarsi alla parola, aprendo la
possibilità di collegarsi al lato sonoro della lingua.
L'importanza della questione è suggerita già dall'epigrafe che apre
l'opera: «questi versi e la loro cadenza / trovò Alcmane, imitando con parole /
quello che aveva inteso / dal canto delle pernici». Dove l'ago della bilancia è
rappresentato dal verbo che scivola nella secondaria implicita, «imitando con
parole»; l'imitazione deve garantire l'avvicinamento al suono animale, ma anche
il distacco da esso, perché la natura non è l'uomo: è ciò che si tratta di
raggiungere conservando la necessaria differenza che distingue l'imitazione
dall'oggetto imitato (cfr. Derrida 1967: 26). Per questo la vera chance del canto e della musica non può
consistere per Rousseau in una semplice riproduzione meccanica del suono
naturale - secondo il riconoscimento che aveva portato La Mettrie (1748: 10,
30) a riconoscere che alcuni animali cantano - bensì in una imitazione
allacciata al compito di restituire gli accenti della voce. Per trasmettere
questa energia occorre tenere presente l'«accento orale». Perciò per cogliere
il vero effetto della musica non bastano le regole, aveva riconosciuto il
frammento da cui si era generato l'Essai:
ci vuole «una metafisica più fine» (Rousseau 1755a: 343) [9] .
Dietro all'apparente linearità del discorso si nasconde in realtà un
circolo vizioso, occultato con un paziente esercizio di moltiplicazione delle
differenze. La musica si rimette al canto, che a sua volta deriva dall'accento
della parola; di fatto, si tratta della catena di rinvii di una traccia sonora
definita per altezze e per intervalli, segmentata in unità discrete. Da questo
punto di vista, il canto delle pernici non è distante dall'imitazione che
poteva trarne Alcmane, anche se a questo riconoscimento si contrappone un'altra
caratteristica subtilitas:
all'origine i popoli intonavano, come rileva l'etnomusicologo ante-litteram (cfr. Baud-Bovy 1988: 84-85 e
Didier 1985: 67, entrambi nel solco di Lévi-Strauss 1962), per intervalli
estranei al nostro sistema di notazione e prossimi alle inflessioni della voce
(Essai, XVIII, 97). Ricompare
l'osservazione relativa alla declamazione formulata da Du Bos, di cui Rousseau
dovrà ricordarsi anche nell'articolo sul genere enarmonico: c'è un intervallo
minimo, vocale, che salva la libertà dell'espressione. Replicando a Rameau, che
aveva creduto di riconoscere l'istinto
della musica in un sentimento armonico preesistente alla formazione della
melodia, l'invito è a spostare la sua radice nelle inflessioni vocali. Ma nella
spiegazione affiora un significativo dettaglio: gli intervalli minimi, quelli
che dovrebbero essere più naturali in quanto allacciati alle libere inflessioni
della prima lingua, sono, malgrado tutto, più difficili da intonare. Dunque, la
voce dovrà essere caduta su intervalli più piccoli di quelli armonici e più
grandi, ovvero più semplici del comma, che dobbiamo presumere presente
nell'inflessione oratoria. Ciò sarà avvenuto, ecco l'apparente soluzione, naturalmente (Essai,
XVIII, 98). L'avverbio salva l'originarietà della conversione, aggirando
l'improbabile spiegazione secondo cui un intervallo di difficile intonazione
dovrebbe essere considerato più spontaneo e naturale. Ma ciò che Rousseau
nasconde è in verità proprio ciò che il suo discorso finisce indirettamente per
dimostrare, e cioè che la legge dell'intervallo e della spaziatura sono in
opera fin dalle origini (cfr. Derrida 1967: 229). Perciò ogni distinzione,
compresa quella fra diatonico e armonico, è debole: per quanto modesti, gli
intervalli restano avvertibili.
3. Alcmane e le pernici
L'istinto guarda, gusta, tocca, ascolta
continuamente e forse si potrebbe imparare
più fisica sperimentale studiando gli animali
che non seguendo i corsi di un professore.
Diderot, De
l'interprétation de la
nature, 1753
Ma se Alcmane imitava con parole quello che aveva inteso dal canto delle
pernici, sarebbe riduttivo ritenere che quest'ultime, per indole inclini al
divertimento (Hist. an., 488b), non
facciano altro che ripetere senza modifiche ciò che la natura ha dettato loro.
Alcune chiocciano, altre trillano (Hist. an.,
536b). E del resto, se è vero che fra tutti gli esseri viventi l'uomo è il più
propenso all'imitazione (Poet., 144Bb
5-10), alcuni uccelli, aveva osservato Aristotele, dimostrano spiccate
capacità: il gufo, burlone per carattere, imita la danza di altri uccelli,
mentre imitano i suoni della voce i rapaci dal collo corto e dalla lingua
larga, ai quali appartiene anche l'«uccello indiano» (cioè il pappagallo) che
diventa insolente dopo aver bevuto del vino (Hist.
an., 597b). A prescindere dalla dubbia attribuzione (cfr. Vegetti
1971: 447), l'esempio - che dovrà migrare in una sicura fonte del pensiero
illuminista, l'Essay Concerning Human
Understanding di Locke (1790: II, XXVII, § 9-10) [10] - è indicativo: il
pappagallo imita articolando la voce, anche se, come dovrà aggiungere Condillac
(1755: II, IV, 629), entra nei nostri pensieri meno di quanto riesca a farlo un
cane. Forse è proprio all'imitazione, come aveva osservato Agostino (De mus., I 4, 6), che si può ricondurre
l'abilità canora palesata da gazze, pappagalli e corvi, che senza il possesso
consapevole di alcuna scienza dimostrano di rispettare con precisione le leggi
dell'intervallo.
Nel riformulare la questione del canto degli uccelli può essere utile
richiamare il modo in cui Aristotele aveva impostato la distinzione di tre
fenomeni: il suono, la voce e il linguaggio (Hist.
an., 488a, e soprattutto 535a-536b). Il suono rappresenta l'ambito
più esteso, mentre la voce è considerata «un suono dell'essere animato». Perciò
è solo per somiglianza che si può dire che il flauto e la lira hanno voce (De an., 420b 5). Da un punto di vista
anatomico, questa si collega all'apparato respiratorio: può essere emessa solo
dalla laringe. Gli animali che non assumono l'aria (De
an., 420b 18) o che non hanno polmoni (Hist.
an., 535a), non hanno voce, anche se emettono suoni. Più
precisamente: non basta lo spostamento dell'aria, è necessario che il pneuma
sia interno. Di conseguenza non è possibile attribuire la voce agli insetti
(che non respirano) o ai pesci (anche se alcune specie sono in grado di
emettere suoni). Particolare il caso del delfino, che possedendo i polmoni e la
trachea, ha una voce senza avere un linguaggio, perché non possiede una lingua
sufficientemente sciolta per le articolazioni (Hist.
an., 536a).
Di là dal livello anatomico, il fatto che non ogni colpo di tosse possa
essere considerato una voce si spiega in base a due motivi: l'organo fonatorio,
specifica Aristotele, «dev'essere animato e accompagnarsi a un'immagine»; cioè
il suono deve significare qualcosa (De an.,
420b 29). Ma se la capacità di formulare dei nomi, vale a dire delle voci che
significano per convenzione, appartiene soltanto all'uomo (De int., 16a 19), non è esclusa la presenza
di una forma di comunicazione orale negli animali. In effetti il passaggio
dalla voce al linguaggio (dialektos)
è dovuto all'articolazione, che dipende ancora dalle caratteristiche
dell'apparato fonatorio, in particolare dalla lingua. Ma proprio per questo
alcuni uccelli «hanno la facoltà di emettere suoni articolati in grado maggiore
di tutti gli altri animali, secondi in questo solo all'uomo» (Hist. an., 504b). Si tratta in particolare di
uccelli con la lingua larga e sottile (cioè non spessa, cfr. Vegetti 1971: 277;
Hist. an., 536a), come i rapaci (De part. an., 660a). Al contrario, i vivipari
e i quadrupedi, pur manifestando voci diverse, non sembrano capaci di
linguaggio, avendo la lingua dura, poco sciolta e spessa (De part. an., 660a); altrettanto incapaci di
linguaggio sono i sordomuti dalla nascita, mentre nei bambini esso è imperfetto
(sono blesi e balbuzienti), perfezionandosi solo col progressivo controllo
della lingua (Hist. an., 536b),
delle labbra (De part. an., 660a) e
dei denti (De part. an., 661b).
Diverso il caso del canto, che nonostante condivida con il linguaggio
l'uso della voce, secondo Aristotele non va associato ai suoi progressi. Il
riscontro più generale riguarda il fatto che gli animali cantano e vociferano
nei periodi dell'accoppiamento (Hist. an.,
488b). La tesi sarà ripresa e perfezionata da Darwin (1871: 599 e 940):
correggendo la teoria formulata da Spencer (1858) con il riscatto della
componente biologica, il canto può essere interpretato non solo come un
richiamo ma come un mezzo di seduzione e di competizione, attivando «un
meccanismo selettivo favorevole agli individui sotto tale riguardo più abili»
(Serravezza 1996: 241). Il principio elaborato in ambito evoluzionista sembra
trovare una esemplare anticipazione nel testo aristotelico, che segnala come
esistono canti che si rapportano a diverse situazioni competitive (Hist. an., 536a): durante il combattimento
(quaglia), nella sfida (pernici) o dopo la vittoria (galli). A seconda delle
specie, cantano i maschi (galli, quaglie, cicale), o le femmine (usignoli,
tranne nel periodo della cova).
Riguardo ai modi in cui viene prodotto, il canto sembra partecipare
soprattutto al livello della voce, collegandosi alle funzioni della laringe e
dunque all'emissione di vocali. Ma del resto si può affermare che le cicale -
che provocano il suono grazie all'attrito del pneuma con una membrana posta
sotto il diaframma - «cantano» (Hist. an.,
535b). Forse
memore del racconto platonico (Fedro,
258-259e), Aristotele lo dichiara più volte, senza segnalare il distacco
dall'espressione metaforica (Hist. an.,
556b, 601a; Parva nat., 475a).
Una delle distinzioni più
visibili riguarda in ogni modo il suono della voce, che può essere qualificato
come acuto o grave (Hist. an.,
536b), sfruttando una metafora desunta dal tatto (De
an., 420b 1-5). La distinzione si associa, sia nell'animale sia
nell'uomo, alla differenza di genere e di età: di solito le femmine hanno la
voce più acuta dei maschi, e lo stesso si riscontra nei giovani e nei vecchi (Hist. an., 544b, 581b; De gen. an.,
786 b). L'eccezione è data dai bovini
(la vacca «emette un suono più grave dei maschi, e i vitelli dei buoi adulti»,
e anche la castrazione produce un risultato opposto a quello consueto; Hist. an., 545a). È nel periodo
dell'accoppiamento, in ogni modo, che l'emissione vocale raggiunge la massima
sonorità, come si può riscontrare nei cavalli (Hist.
an., 545a). La voce grave è ritenuta più nobile «perché il meglio
consiste in una superiorità e la gravità è una superiorità» (De gen. an., 787a).
Il grave e l'acuto dipendono in realtà da vari fattori e anzitutto dal
grado di tensione dei tessuti, con una ipotesi che contraddice i principi della
vibrazione di una corda: quanto più allentato il muscolo, tanto più acuta la
voce (come Aristotele ritiene di poter verificare osservando gli anziani e i
castrati, in De gen. an.,
787b-788a). Un'altra ipotesi riconduce le differenze di registro al clima in
cui vive l'animale (il vento caldo produrrebbe, a causa del suo spessore, una
voce grave; il vento freddo, per il suo carattere rado, una voce acuta; De gen. an., 788a), mentre altre precisazioni
riguardano il tono roco (ruvidezza dell'organo) e la flessibilità (organo
morbido o duro).
Quando la voce consta di suoni articolati, come negli uccelli, può
essere definita una sorta di linguaggio (Hist.
an., 536b): proprio attraverso l'articolazione della voce certi
uccelli comunicano tra loro e in certi casi sembrano persino istruirsi a
vicenda (De part. an., 660b). Un
ulteriore rilievo riguarda il fatto che il canto di certe specie di uccelli non
può ricondursi a fattori ereditari, dipendendo in qualche modo dall'esercizio e
dall'insegnamento (Hist. an., 536b);
così per esempio «fra i piccoli uccelli, alcuni non cantano con la stessa voce
dei loro genitori, se sono stati allevati lontani da essi e hanno udito il
canto di altri uccelli» (Hist. an.,
536b). Perciò la femmina dell'usignolo insegna a cantare al suo piccolo,
confermando una caratteristica che accomuna il canto al linguaggio, vale a dire
il fatto di essere appreso per imitazione.
I riscontri dell'ornitologia aristotelica ci permettono di mettere a fuoco la riduzione messa in opera dalla prospettiva di Rousseau. Il rilievo di fondo riguarda il fatto che se il canto condivide alcuni caratteri del linguaggio, compreso il fatto di essere appreso, corretto e perfezionato, è perché si riporta alle funzioni di una voce sopraordinata alla loro distinzione. Non occorre risalire alle origini, né tracciare un percorso della decadenza, nel riconoscere la radice comune. In tal senso l'invito a individuare nel canto degli uccelli una insufficienza di vocabolario o una proiezione antropomorfica (Derrida 1967: 225) manifesta a sua volta la proiezione di un disegno sistematico. È il motivo che accompagna gli scritti di risposta a Rameau, dall'Examen de deux principes (1755) al Dictionnaire de musique (cfr. Duchez 1974 e 1995; Kintzler 1993; Collisani 1996): la radice della musica è un canto che vanta già le proprietà essenziali del linguaggio. Ma la dimostrazione è fondata sul rilievo di una capacità di articolazione del melos che, nonostante tutto, appartiene anche all'animale. Il caso degli uccelli, che cantano senza parlare, smaschera la precarietà delle distinzioni e il carattere circolare del ragionamento. Per questo Rousseau cerca di risolverlo con un'affermazione assiomatica che ribadisce - contro ogni evidenza - l'essenziale incapacità di espressione di ciò che appartiene all'ordine naturale. Il secondo Discours era stato più generoso con gli animali, «macchine complesse» che, contrariamente al parere di Cartesio e di Malebranche, possiedono una forma di intelligenza fondata sulla facoltà di aggregare le idee ricavate dai sensi, pur segnalando il distacco dalle qualità di agente libero dell'uomo (Rousseau 1754: I, 48). Se il linguaggio dei primitivi poteva assomigliare, nei suoi gesti marcati e nelle sue grida inarticolate, a quello rozzo e gregario delle cornacchie e delle scimmie (Rousseau 1754: II, 61, con un implicito richiamo a Diderot), ora si tratta di preservare il canto dalla semplice natura - cioè dalla natura morta (cfr. Derrida 1967: 225) - dalle leggi dello spazio e del branco, persino dalle grida del selvaggio, per farne una specialità iper-umana: l'imitazione degli accenti della parola.
In realtà le variazioni che, rispettando le leggi del numero, gli
uccelli operano su schemi melodici di base non hanno bisogno di associarsi a
una parola per corrispondere a una intenzione di senso che gli è congenita,
soprattutto nell'esercitare l'imitazione. Difficile dire se in questo modo cercano
di sedurre, ovvero - come sosteneva Plotino (Enn.,
I 4, 1, 6) interpretando il principio della conformità al fine dell'Etica nicomachea (A 8, 1098b 21; K 6, 1176a
31) - esprimono la loro felicità. Con maggiore sicurezza si può riconoscere che
nello spiegare il modo in cui quella combinazione di suoni vocali fa segno a
monte della parola, bisognerà rivolgersi al funzionamento di una traccia
anteriore alla distinzione fra l'uomo e l'animale. Contrariamente a quanto
pensava l'alunno nel De musica agostiniano
(I 4, 5), e per ragioni che non riguardano il buon comportamento di chi ascolta
indicato dal maestro, sarebbe affrettato interpretare come un'offesa il fatto
che le bestie riescono a eguagliare, attraverso la ripetizione e la modulazione
del suono, quanto gli uomini riescono a fare con l'arte e l'esercizio
quotidiano.
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No t e
* Pubblicato
in «Rivista di estetica», n.s., 8 (2/ 1998), XXXVIII, pp. 113-126.
[1] Cfr.
anche Marziano Capella, De Nuptiis Mercurii et
Philologiae, IX, 926, 9-10. Si tratta di un riferimento comune ad
altri autori antichi ma che tuttavia «non è più fondato delle etimologie di
Platone nel Cratilo» (Gevaert 1903:
290).
[2] Cfr.
per esempio Fontenelle 1687: II, V e Du Bos 1733: III, IV.
[3] Con
Starobinski (1971: 150) si può osservare che «gli scritti di Rousseau sulla
musica presentano un'opposizione fra l'anima e i sensi (il sentimento e la
sensazione) in modo più accentuato che in qualunque altro suo testo».
[4]
L'analogia con la pittura è ancora utilizzata nell'Examen,
mentre il suo rifiuto nell'Essai
documenta, come ha osservato Murat (1980: 152), che la critica del concetto
tradizionale di mimesis è ampiamente
in corso.
[5] Nel
capitolo di L'homme machine dedicato
a illustrare il movimento dell'organismo umano, riportando le funzioni
dell'uomo a una meccanicità presente a livello animale La Mettrie (1748: § 17,
63) si spingeva fino alla possibilità di determinare meccanicamente il
linguaggio: «(...) se Vaucanson ha avuto bisogno di più arte per fare il suo suonatore di flauto che il suo canarino, gliene sarebbe occorsa ancora di
più per fare un parlante: macchina
che non si può considerare impossibile, soprattutto fra le mani di un nuovo
Prometeo».
[6]
L'esperimento era stato presentato nelle Nouvelles
Expériences d'Optique, 1735 e nella Optique
des Couleurs, 1740; oltre a servirsene nella Lettre sur les sourds et muets, (1751)
Diderot gli aveva dedicato un articolo dell'Encyclopédie.
[7]
Commenta Didier (1985: 115): «Se ciò che fa un canto sono gli intervalli che
esistono tra le note, c'è in effetti un canto degli uccelli, dei gatti, ma
anche del vento. Se è l'intenzionalità, se è il desiderio di esprimere questa
possibilità di dare senso agli intervalli musicali, allora la questione diviene
molto più complessa, ed ecco forse perché Rousseau nel suo Dictionnaire rinuncia a parlarne e si limita
(...) al canto musicale».
[8] Se
con il termine natura dobbiamo intendere ciò che precede la cultura, allora
sarà «importante, e forse sorprendente, notare che in quest'ultima accezione,
il termine "naturale" non può qualificare nessun tipo di musica:
neanche la linea melodica del canto, la prima forma di espressione sonora. Per
questo Rousseau, che nella voce "Chanson" dell'Encyclopédie (tomo III) aveva scritto che
"l'uso delle Canzoni è molto naturale all'uomo", quando la riscrive per
il Dictionnaire ritiene opportuno
evitare ogni equivoco e modifica: "l'uso delle Canzoni sembra essere un
seguito naturale di quello della parola, e in effetti non è meno generale;
perché ovunque si parli, si canta (...) E con più apodittica chiarezza:
"le vrai Sauvage ne chanta jamais", afferma nel Dictionnaire; dichiarazione tanto più
significativa se confrontata con la nuova definizione di canto in cui
programmaticamente include ogni possibile forma melodico-vocale, anche di altre
culture, eventualmente strutturate su scale e intervalli diversi dai nostri»
(Collisani 1996: 69-70).
[9] Nel
XVIII secolo le teorie classiche della rappresentazione si sforzano di
ricondurre la musica e la poesia allo statuto della pittura, come si può
osservare in Du Bos (1733: I, III) e in Batteux (1746), che nella seconda
edizione dei Beaux-arts include un'Appendice per indicare come «le passioni sono
l'oggetto principale della musica e della danza» (e si tratta dei «sentimenti
che sorgono dalle situazioni apprestate per l'azione»). A prima vista Rousseau
sembra confermare questa tradizione (cfr. per esempio 1768: «Musique»). Ma a
buone ragioni De Man (1970: 467) rileva come man mano che l'analisi progredisce
il contenuto del sentimento è «vuotato di ogni traccia di sostanza».
[10] In
un'aggiunta della seconda edizione (1794) Locke riporta il caso, illustrato da
William Temple (Memoirs of what passed in Christendon
from 1672 to 1679, London 1692, p. 66), di un pappagallo che
sembrava ragionare, rispondendo a tono al suo interlocutore.
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