Giuseppe Tortora
P. Galluppi e J.-J. Rousseau
in
AA.VV.
Cultura romantica e territorio
nella Calabria dell’Ottocento
Atti del Convegno di
Studi, Cosenza-Catanzaro 9-12 aprile 1986
Ed. Periferia,
Cosenza 1987
pp. 451-465
1. Anche quando, dal 1831 in poi,
esercitò il suo magistero nella Regia Università degli Studi di Napoli,
Pasquale Galluppi, barone di Tropea, non «rimosse» né dissimulò le sue origini
calabresi. Anche quando divenne illustre cittadino della grande capitale del
Regno delle due Sicilie, egli certo non dimenticò il suo piccolo paese natio.
Un vincolo profondo lo legava alla sua terra, alla storia e alla civiltà del
territorio in cui aveva avuto i natali. Un vincolo che riappare qua e là anche
nei contesti squisitamente teoretici che segnano l’itinerario speculativo
consegnato alle sue opere. Piú d’una volta egli fa riferimento alla sua
Calabria praticando il modulo retorico della «esemplificazione»; un modulo a
cui fa ricorso con frequenza, specialmente quando la sua sensibilità didattica
gl’impone di rendere piú facilmente accessibili, o anche solo piú chiaramente
evidenti, i concetti che va utilizzando nel suo lavoro di costruzione
speculativa.
Il ricordo della «sua»
Tropea ritorna, ad esempio, negli Elementi di Filosofia; nel primo volume
( Napoli 1853, pgf. 70, X cap.), trattando argomenti di «Logica Pura», per
dimostrare che i «fenomeni della vista» non provano affatto che – come vogliono
«alcuni filosofi» – i «giudizi abituali» alterano le sensazioni attuali,
formula questo esempio:
Allora,
per cagion di esempio, che partendo da Tropea, piccola città delle Calabrie,
giungo in Messina, la veduta di questa seconda città, a cui presto attenzione,
riproduce l’idea della prima. Possono farsi due supposizioni: o lo spirito si
arresta a questa riproduzione, senza andare piú oltre; od egli avrà la
coscienza insieme della visione attuale di Messina e dell’idea riprodotta di
Tropea, e questa coscienza costituisce il sentimento, o l’apparenza di Messina
come città popolata.
Naturalmente l’ipotesi
veridica, per Galluppi, è la seconda, quella in cui il ricordo di Tropea rende
possibile la considerazione – fedele alla realtà – di Messina come città piú
grande e piú popolata; ma non è difficile immaginare che agli occhi di Galluppi
la veduta «attuale» della maggiore grandezza di Messina doveva rendere piú
tenero il ricordo della «piccola» Tropea, se egli cita proprio questa, e non
altra cittadina del suo Mezzogiorno.
Certo, questo è un
riferimento accidentale, sia rispetto al discorso teoretico sia per la
relazione in cui Tropea è posta con Messina e, piú avanti nello stesso esempio,
con Napoli. Ma meno accidentale è il ricordo di un evento che ha visto la sua
Calabria protagonista infelice dell’epoca della sua giovinezza.
Nel secondo volume degli Elementi,
nel corso della trattazione riservata alla «Logica Mista» (pgf. 46, III cap.),
dopo aver sottolineato la distinzione tra le due specie di esperienza – quella
primitiva e quella secondaria –, muove ad evidenziare il rapporto tra
l’esperienza e le varie forme di linguaggio; e, premesso che «l’invenzione del
linguaggio della parola, e l’invenzione dela scrittura alfabetica... fanno che
l’uomo possa gettare il suo sguardo in tutt’i luoghi e in tutt’i tempi», e che
«i fatti consegnati negli scritti possono, colla conservazione degli scritti,
che li contengono, trasmettersi alle future generazioni», per dimostrare che
«il linguaggio passaggiero della parola, quello permanente della scrittura
alfabetica e quello dei monumenti, possono dunque circa alcuni fatti, essere
motivi legittimi dei nostri giudizi», si esprime in questi termini:
Credo
utile di addurvi un altro esempio, in conferma di ciò che vi ho detto. Nel
giorno cinque di Febbraio 1783 un terribile tremuoto, poi seguito da altri,
cagionò dei danni notabili alle Calabrie, ed ancora alla città di Messina. Gli
abitanti furono obbligati di uscire fuori dalle loro abitazioni, e di
costruirsi delle baracche per abitarvi; alcuni le hanno costruite in lontananza
dei paesi diruti, i quali rimasero perciò deserti. Cosí accadde, per esempio, a
Briatico, che fu costruito di nuovo vicino al mare, e Briatico antico presenta
allo spettatore i segni delle sue ruine: altri hanno costruito le nuove
abitazioni in un suolo contiguo all’antico abitato. Cosí accadde a Tropea, le
cui nuove abitazioni furono costruite lungo e all’intorno della strada detta
dell’Annunciata.
Gli eventi riferiti –
ricordati en passant anche piú avanti nello stesso volume – costituiscono una
parte del patrimonio dell’esperienza «calabrese» del Galluppi giovinetto;
un’esperienza, ora rivissuta in termini di rievocazione, che s’inserisce con
una sua legittimità nel tessuto del «discorso» del pensatore, ovvero che si
dispone, nel procedere dei suoi pensieri, a monte di altre osservazioni e
riflessioni, costituendosi poi, insieme con queste, come mezzo utile ed
efficace per togliere i veli ad una «verità teoretica». Aggiunge infatti il
Galluppi:
Molti,
che sono stati testimoni oculari dell’avvenimento, vivono ancora, molti altri
appartengono alle seguenti generazioni; i primi narrano ai secondi l’origine
delle ruine che colpiscono i loro occhi, non meno che l’origine delle nuove
abitazioni; ciascuno testimone oculare è istruito dalla esperienza, che tanto
egli, che gli altri testimoni oculari narrano il vero, e che coloro i quali
narrano il fatto ad altri, per averlo eglino inteso narrare da’ testimoni
oculari, narrano il vero. L’esperienza dunque c’insegna, che vi sono dei
testimoni di udito, la cui testimonianza è verace, e che la tradizione orale,
unita ai monumenti, può trasmettere alle generazioni future i fatti accaduti
ne’ tempi da queste generazioni lontane. La memoria di questo tremuoto si trova
depositata in una moltitudine di scritti, i quali ancora rimangono, ed i cui
autori piú non sono.
2. Ciò nonostante Galluppi,
calabrese filosofo, non può esser definito un «filosofo calabrese», attribuendo
alla definizione un piú o meno forte senso tecnico. Anzitutto perché, in linea
teorica, risulterà sempre sterile ogni tentativo sia di regionalizzazione
dell’autentico filosofare sia di individuazione di specifici e qualificanti
caratteri regionali di un determinato pensiero filosofico. Inoltre perché, in
linea di fatto, né la sua filosofia era destinata prevalentemente ai suoi
conterranei, né egli stesso creò una sua «scuola» in Calabria.
Insomma, la sua
elaborazione non si aggira nei limiti necessariamente ristretti dell’
esperienza maturata nella sua terra d’origine; i «materiali» attinti alla sua
formazione giovanile, quelli provenienti dalla sua educazione familiare e dalla
pratica degli usi e dei costumi conservati vissuti e trasmessi dal contesto
sociale in cui la sua fervida intelligenza ha mosso i primi passi «culturali»,
e infine le sollecitazioni provocate dalla memoria storica, piú o meno latente,
della civiltà che caratterizza come calabresi Galluppi e i suoi conterranei di
ieri e di oggi, si dialettizzano in lui, com’ è giusto che sia, con
l’osservazione di sé in quanto uomo, in quanto cioè portatore di caratteri e
valori che lo accomunano a tutti gli altri uomini della terra, del passato e
del presente; e si confrontano con gli stimoli offerti dalle voci piú
significative della storia della filosofia moderna e da quelle che si muovono
sulla scena della cultura filosofica europea del suo tempo.
Sarebbe ben lungo anche
il solo nudo elenco dei pensatori, passati e coevi, con cui egli dialoga nei
suoi scritti, le cui tesi analizza, interpreta, critica, confuta, partecipando
a questo dialogo con una varietà di sentimenti e atteggiamenti che copre un
ampio spettro; uno spettro cioè che registra, accanto alla freddezza del
distacco intellettuale, anche il calore dell’entusiasmo e persino
l’indignazione, l’animosità, lo stupore.
Insomma Galluppi è da
annoverarsi tra gli esponenti di quella élite culturale meridionale
dell’Ottocento che ha avvertito il bisogno di aprirsi alle sollecitazioni, di
raccogliere le sfide, di rispondere alle interpellazioni rivolte alla sua
intelligenza dalla migliore cultura europea del passato e del presente. E lo
sforzo di elevare il tono della sua elaborazione speculativa a livello d’un
uditorio internazionale ebbe importanti riscontri e significativi
riconoscimenti: vale la pena ricordare non solo il sostenuto scambio culturale,
per via epistolare, con V. Cousin, ma anche le nomine a Socio corrispondente
dell’Accademia di scienze morali e politiche del Real Istituto di Francia –
nomina patrocinata dallo stesso Cousin –, e a Cavaliere del Real Ordine
francese della Legion d’Onore; e poi, la pubblicazione a Parigi, nel 1844, dunque
qualche anno prima della sua morte, della traduzione francese delle sue Lettere
filosofiche; e infine gli articoli, le recensioni, le citazioni, relative
ai suoi lavori, apparse, quand’era ancora in vita, sulla «Revue
Encyclopedique», su «Temps» e sull’ «Edimbourg-Review».
La «gloria letteraria»
ottenuta presso gli uomini colti d’Oltralpe fu da lui costruita e sostenuta
anche con la costante attenzione a quanto ai suoi tempi andava maturando
all’estero negli studi filosofici e storico-filosofici, di cui sono segni la
pubblicazione a Napoli della traduzione dei Fragments philosophiques del citato
Cousin, il saggio Sullo stato attuale della filosofia in Francia, e l’articolo
Sul panteismo del signor Lamennais, oltre che la trascrizione – ai fini del suo
lavoro – di pagine delle opere di tanti altri autori stranieri, di alcuni dei
quali discusse criticamente le tesi nelle sue maggiori pubblicazioni (Damiron,
Robinet, Degérando, Cabanis, Destutt de Tracy, Laromiguiere, Royer Collard,
Stewart, ecc.).
Una vera familiarità,
favorita dalla buona conoscenza della lingua, ebbe con i testi di quegli autori
francesi appartenenti alla generazione immediatamente precedente alla sua.
Anche un esame sommario delle sue opere rivela una abbastanza profonda
conoscenza della produzione culturale dell’effervescente Settecento francese.
Le dottrine di Condillac, Diderot, d’Alembert, Helvétius, d’Holbac, Rousseau,
vengono diffusamente esaminate, in un discorso teoretico che, pur mantenendo
una rigorosa unitarietà, si sofferma all’occorrenza, ove piú ove meno, anche su
tesi che si trovano, per cosí dire, in una zona di confine tra filosofia e
scienza, quali quelle sostenute da Maupertuis, Buffon, Montucla, Montmort,
Nollet, Bonnet, Crousaz.
3. Sullo sfondo storico-filosofico della
sua costruzione speculativa, accanto ai giganti del pensiero «moderno», che
giganteggiano anche nel suo discorso – Cartesio, Locke, Leibniz, Spinoza,
Wolff, Hume, Kant –, e accanto ad altri pensatori di tutto rispetto – quali
Berkeley, Bayle, Hobbes, Clarcke, Genovesi, Malebranche, Pascal –, trovano un
posto di significativa rilevanza proprio i «philosophes» settecenteschi, i
quali compaiono non «unificati» in una precisa categoria storico-filosofica,
forse perché al Galluppi interessa piuttosto sottolineare le differenze tra le
dottrine, la peculiarità delle diverse tesi.
Se si tien conto
dell’orientamento speculativo globale del Galluppi, ovvero del suo progetto di
costruire uno «spiritualismo» ben fondato sul piano logico, adeguato a quelle
ch’egli riteneva fossero le istanze piú profonde dell’uomo, e non difforme per
risultati rispetto a ciò che la fede tramandata dalla Chiesa ha conservato nel
corso della storia, e a ciò che la teologia, secondo la sua convinzione, è
andata acquisendo all’umano sapere riflettendo sul dogma; se si tien conto, in
particolare, del suo bisogno di profilare un’antropologia «dualistica» che,
facendo perno sullo «spirito», ponesse le basi solide per un’etica
rigorosamente universale, per un’etica cioè ancorata a quei valori che, nella
sua veduta, ogni uomo in buona fede non può non riconoscere come
inequivocabilmente assoluti; se si tien conto di tutto questo, allora è
evidente che l’atteggiamento da lui riservato al materialismo di d’Holbac ed al
sensualismo di Helvétius non poteva essere che quello di lotta implacabile ed
estesa su tutto il fronte dottrinario; ma si comprende pure perché egli guarda
con attenzione e con simpatia a Rousseau, anzi a un certo Rousseau, a quel
pensatore che, pur essendo buon amico dei materialisti francesi – peraltro
frequentati per un certo tempo nelle riunioni settimanali del salotto d’Holbac
– non risparmiò, com’è noto, acute critiche, anche se per lo piú in forma
indiretta, alle loro dottrine, e in particolare all’utilitarismo edonistico di
Helvétius.
Ma, l’interessamento di
Galluppi per Rousseau fu forse puramente strumentale? Il suo appellarsi alle
tesi del ginevrino risponde solo a ragioni di opportunità, cioè allo scopo di
sfruttare appieno il ruolo storicamente svolto da Rousseau di «oppositore» di
Helvétius, in modo da rendere piú solido e piú autorevole il proprio disegno
confutatorio del sensualismo?
A queste conclusioni
menerebbero alcune considerazioni.
Anche se non avesse mai
avuto notizia del fatto che l’Emilio – l’unico testo rousseauiano da lui
preso in considerazione e abbondantemente citato – aveva subito, nel volger di
pochi anni, la stessa sorte già toccata al Dello Spirito di Helvétius, ossia la
condanna da parte dell’arcivescovo di Parigi Christophe de Beaumont, sembra strano
che Galluppi, cosí sensibile alle ragioni del cristianesimo, non si sia accorto
di quegli elementi di potenziale pericolosità che avevano indotto l’illustre
prelato ad assimilare l’Emilio all’opera helvetiana, un’opera che – cosí
si diceva nel duro giudizio di condanna – sovvertiva la legge naturale,
sradicava i fondamenti della religione cristiana, e travisava i valori umani,
oltre che quelli evangelici.
Inoltre, non può non
colpire che il Rousseau presentato da Galluppi alla riflessione dei suoi lettori
è proprio quello dell’Emilio, anzi del IV libro di quest’opera; insomma
è il Rousseau che, nella «Professione di fede del vicario savoiardo», sviluppa
un’articolata critica delle teorie helvetiane, non certo quello, ad esempio,
del Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini,
o del Contratto sociale. Nelle pagine galluppiane è totalmente assente
il Rousseau che attacca frontalmente le diverse forme del prepotente dominio
politico esercitato dagli stati moderni; che alza alta la voce contro il
conculcamento, da questi effettuato, dei diritti naturali dell’uomo; che
lamenta con analisi raffinate la subdola violenza con cui i «regimi»
contemporanei modellano il popolo secondo i loro progetti. Mai compare il
Rousseau che denuncia il perverso obiettivo, perseguito dagli stati, di tenere
il popolo in una stabile condizione di disintegrazione sociale, e,
simultaneamente, di dissimulare quella disintegrazione celandola dietro la
finzione di una «unità politica» del tutto formale, o che accusa il potere non
solo di non accogliere e di non rappresentare le istanze di libertà e di
eguaglianza «reali», ma addirittura di spegnere negli individui la dolce,
divina «vox naturae».
Ciò nonostante, sarebbe
ingiusto ipotizzare un uso meramente strumentale di Rousseau, da parte di
Galluppi. Certamente «quel» Rousseau che egli chiama in gioco è utile al
pensatore italiano, dal momento che gli offre solide garanzie nella lotta alla
dottrina di Helvétius; del resto il piú delle volte Galluppi lo invoca proprio
nel corso della confutazione delle tesi del materialista. Ma è pure
indubbiamente vero ch’egli avverte una profonda, autentica sintonia tra il suo
autonomo orientamento di pensiero e i fondamenti su cui si regge il discorso
dell’Emilio. Una sintonia per cui, da una parte, le tesi rousseauiane da
lui prese in considerazione non dovevano poi apparirgli tanto lontane e
antitetiche rispetto anche alle convinzioni maturate come uomo di fede; e,
dall’altra, e correlativamente, gli argomenti addotti dal vescovo di Parigi nel
«Mandement» di condanna dovevano forse apparirgli, piuttosto, come l’esito del
clima infuocato della Parigi di metà Settecento, in cui la serietà e
l’organicità dell’attacco alla vita della fede individuale e a quella della
Chiesa, mosso dai materialisti, avevano indotto l’istituzione ecclesiastica ad
una reazione che, per essere troppo decisa, finiva per essere scomposta ed
inadeguata.
4. In ogni caso, mai Galluppi
minimizza o dissimula quella sintonia col Rousseau ch’egli vede immediatamente
piú vicino al suo orientamento intellettuale; né gli si può imputare di aver
intenzionalmente trascurato l’altro volto del ginevrino, dal momento che sempre
poca attenzione egli ha dimostrato, e sempre scarso interesse egli ha nutrito
per quei problemi e per quei temi che avevano stimolato l’interesse accorato,
la passione, e le fervide capacità spirituali dell’«altro» Rousseau.
Alle prime battute della
«Prefazione» ad una delle sue opere di maggiore impegno teoretico, il Saggio
filosofico sulla critica della conoscenza (III ed., Napoli 1846, vol. I,
p.3), proprio enunciando l’oggetto della sua indagine, Galluppi dice:
Che
cosa posso io sapere? ecco la prima domanda, che il filosofo, rientrando nella
solitudine del suo intendimento, è costretto di fare a se stesso. Che
cosa posso io sapere? Son
io capace di conoscenze reali? Quali sono i motivi legittimi di queste
conoscenze? Quali sono i limiti prescritti al mio spirito, limiti che non gli è
permesso di oltrepassare, senza precipitare nell’abisso dell’errore? Tali sono
le ricerche sublimi, ed importanti, che mi occuperanno nell’opera, che ho
l’onore di presentare agli amici della verità, e della virtú: esse formano
l’oggetto delle attuali meditazioni dell’Europa dotta; esse mostreranno, in
conseguenza, se l’uomo può con fondamento saper qualche cosa di se stesso, di
ciò che lo circonda, della sua origine.
Ebbene, subito appresso,
tra gli esponenti dell’Europa dotta, prim’ancora di citare Kant, a cui il brano
è inequivocabilmente ispirato, egli cita un passo di Rousseau (Cfr. Opere, a
cura di P. Rossi, Firenze 1972, p. 540) che, ai suoi occhi, si presta bene ad
illustrare l’obiettivo finale e soprattutto il primo fondamento di una «critica
della conoscenza»:
Ma
chi sono io? Qual diritto ho io di giudicare le cose? E che cosa determina i
miei giudizi? Se essi sono trascinati, forzati dalle impressioni che ricevo, mi
affatico invano in tali ricerche; esse non si faranno affatto, o si faranno da
sé senza ch’io m’immischi di dirigerle. Bisogna dunque che rivolga dapprima i
miei sguardi su di me per conoscere lo strumento di cui voglio servirmi e fino
a qual punto possa fidarmi nell’usarlo.
Galluppi, dunque, si
muove sulla stessa lunghezza d’onda di Rousseau quanto al tema del
cominciamento del lavoro speculativo. Bisogna consultare l’esperienza interiore
per delineare una corretta gnoseologia; come del resto bisogna appellarsi alla
voce della coscienza per dar corpo ad una concezione etica autenticamente e
pienamente umana. La ricerca filosofica nasce sul fondamento di
un’autointerrogazione del «me» pensante, e può esser veridicamente condotta
solo a condizione che si tenga conto di ciò che lo spirito trova in se stesso.
Ma, secondo Galluppi,
Rousseau va anche oltre il limite che Kant stesso s’era imposto; per il
ginevrino, la risposta ai quesiti «che cosa posso fare?» e «che cosa posso
sperare?» dev’essere contestuale a quella data alla domanda «che cosa posso
sapere?»; anzi, checché ne pensi Kant, esiste una precisa correlazione tra i
tre quesiti, per la quale la risposta all’ultimo rende possibile la risoluzione
delle altre due questioni (Saggio, cit., I, p.3).
Insomma, in linea col
discorso di Rousseau, Galluppi è convinto che l’esame dello «strumento»
conoscitivo riveli all’uomo la effettiva possibilità che la sua intelligenza
acceda alle verità metafisiche, e, simultaneamente, conferisca ad esse quelle
garanzie razionali capaci di sottrarle al chiuso dominio del sentimento, o come
vogliono alcuni, all’area della fantasia mistificatrice. In base a questo convincimento
il pensatore di Tropea non poteva se non respingere con decisione il sensismo
di Helvétius; esso infatti, a suo avviso, non solo è intrinsecamente
illegittimo, ma soprattutto chiude l’uomo a tal punto nei ceppi delle
sensazioni da impedirgli di muovere alle verità superiori. Contro tale sensismo
Galluppi ribadisce la distinzione delineata da Rousseau tra «sentire», momento
passivo del processo conoscitivo, e «giudicare», momento invece che rivela
un’autonoma, indiscutibile attività dello spirito. (Emile, par F. et P.
Richard, Paris 1951, pp. 325-326).
Il richiamo galluppiano a
tale distinzione non risponde solo ad una logica confutatoria, ma esprime un
consenso «sentito» e intellettualmente motivato. E’ la stessa analisi di quel
che anche per il ginevrino è un «dato» primitivo, immediato, ossia del «me»
pensante, che lo conferma senza possibilità di replica; è lo stesso esame della
vita dello spirito che chiude ogni spazio alle deformità dei sensisti, e che dà
piena legittimità non solo alle «verità primitive» che l’uomo coglie
nell’autoriflessione, ma anche alle «idee» a priori e alle conoscenze
universali che il sensismo nega risolutamente. Per quanto si voglia assimilare
il giudicare al sentire, le sensazioni – ribadisce Galluppi sulla scorta di
Rousseau – restano sempre e solo sensazioni, e nessun nudo e crudo accostamento
di sensazioni produrrà mai una vera «idea», né si configurerà mai come un
autentico «giudizio»; il quale giudizio può aver luogo solo quando
l’intelligenza «relaziona» le sensazioni con un atto autonomo, originario,
specifico (Filosofia della Volontà, Napoli 1832, I, pp. 192-196; Saggio,
cit., I, pp. 50-51).
5. Sicché Rousseau costituisce per
Galluppi un prezioso supporto per la lotta allo scetticismo, che, a suo
giudizio, nelle forme vecchie e nuove sempre compromette funestamente la
possibilità di fondazione di una sana concezione etica e, in ultima istanza, la
certezza delle verità metafisiche, anche di quelle di cui si alimenta la fede
religiosa: le verità etiche e metafisiche sarebbero state garantite solo da una
gnoseologia che avesse delineato l’immagine di un «vero» oggettivo, assoluto,
universale.
Peraltro Rousseau stesso
segnalava l’innaturalezza delle posizioni scettiche; Galluppi ricorda con
compiacimento che per il ginevrino, come prima per Pascal, uno scetticismo
vero, ossia non di maniera né di comodo, è incompatibile con la tranquillità
dell’anima, dal momento che talvolta sussiste un rapporto tra verità e felicità
tanto stretto da risultare inscindibile.
Galluppi ricorda (Saggio,
cit., I, pp. 197-199) quel brano rousseauiano in cui il vicario savoiardo parla
della pena sofferta nell’attraversare l’inquietante fase del dubbio. Quel
brano, per il pensatore di Tropea, è molto eloquente: se perfino il dubbio
metodico – un dubbio adottato «in buona fede» e per un obiettivo sublime: la
ricerca della verità – rende la vita dell’uomo angosciosa e contraddittoria,
poiché lo priva di ogni punto di riferimento cui ancorare il senso della
propria esistenza, è impossibile disconoscere che l’assunzione di uno stabile
atteggiamento scettico esprime una scelta spiritualmente suicida, contraria
alle istanze piú autentiche e profonde del cuore umano, quando non esprime
interesse per il vizio – che lo scetticismo per Rousseau indubbiamente
favorisce – o la compiaciuta, colpevole pigrizia dell’anima.
Totalmente, intimamente
condivisa dal Galluppi, dunque, era l’esclamazione rousseauiana (Opere,
cit., p. 539):
Come
si può essere scettici per sistema o in buona fede? Non posso comprenderlo.
Tali filosofi, o non esistono, o sono i piú infelici degli uomini. Il dubbio
sulle cose che c’importa conoscere è uno stato troppo violento per lo spirito
umano; il quale non vi resiste a lungo: si decide suo malgrado in un modo o in
un altro, e preferisce ingannarsi piuttosto che non credere nulla.
Per Galluppi, in tema di
fondamenti di etica, Rousseau è andato persino oltre Kant; ha ragione il
pensatore tedesco nel sostenere che due e ben distinti tra loro sono i principi
dell’azione, quello che mira al «dovere» e quello che tende al conseguimento
del «piacere», e che solo il primo produce la condotta virtuosa (cfr. Elementi,
cit., II, pp. 292-296); tuttavia il ginevrino ha mostrato che tale distinzione
non implica un’insanabile opposizione, una radicale contraddittorietà
reciproca. In quel passo dell’Emilio – ricorda Galluppi – in cui
Rousseau fa cenno al militare che fu distolto, in gioventú, dalla cieca
passione per le donne grazie all’opportuno intervento del padre, il quale lo
condusse in un ospedale per sifilitici per fargli osservare i dolori che
affliggevano le vittime del disordine dei sensi (Emile, cit., p. 274);
in quel passo il ginevrino mostra che l’ «interesse» – che in certi casi si
manifesta appunto col «timore della pena» –, sebbene rimanga pur sempre una
spinta «egoistica», per quanto abbia in prospettiva pur sempre il conseguimento
della «felicità», in certi casi può svolgere una sua funzione specifica
rispetto alla realizzazione del comportamento etico: un interesse ben inteso
talvolta può contrastar la passione facendo piú spazio al «principio del
dovere», talaltra può rimuovere o attenuare gli ostacoli che si frappongono
all’esercizio della virtú, talaltra ancora può addirittura collaborare
attivamente e positivamente con l’impulso morale (Fil. d. Vol., cit.,
IV, pp. 164-165).
E contro la tesi
helvetiana della impossibilità di una assoluta e universalmente valida
distinzione tra bene e male morali – tesi che per il Galluppi costituiva un
corollario dello scetticismo gnoseologico –, il pensatore italiano, nell’ambito
del disegno speculativo teso a mostrare che quella distinzione, al contrario, è
possibile, anzi è una possibilità connaturata alla umana natura, ed è
totalmente autonoma dalla sensibilità, dalla ricerca del piacere, ricorda
ancora (Elementi, cit., II, pp. 296-297) l’osservazione rousseauiana che
se non vi fosse nulla di morale nel cuore dell’uomo, se tutto fosse da
ricondursi all’interesse, allora non si spiegherebbero gl’impeti di ammirazione
per i comportamenti nobili e virtuosi, né le «estasi d’amore» per le grandi
anime (Emile, cit., p. 350).
Anche Rousseau – ricorda
Galluppi – ha rilevato che c’è una sostanziale uniformità, nel modo di
giudicare il bene e il male, che accomuna tutti gli uomini d’ogni luogo e
d’ogni tempo. Al di là della diversità dei costumi e dei caratteri dei diversi
popoli apparsi sulla scena della storia, al di là delle stravaganze dei loro
culti, si scorgeranno «dappertutto le medesime idee di giustizia e di onestà,
dappertutto i medesimi principi di morale, dappertutto le medesime nozioni del
bene e del male». Non resta allora che concludere col ginevrino
(Opere, cit., p. 556):
Vi è dunque nel fondo delle anime
un principio innato di giustizia e di virtú, in base al quale, nonostante le
nostre massime, noi giudichiamo le nostre azioni e quelle altrui come buone o
cattive; a questo principio io dò il nome di coscienza.
L’esistenza di quel principio innato è pertanto la ragione per la quale
«vi sono azioni libere, che tutti gli uomini giudicano degne di lode e di
premio; e vi sono azioni libere, che tutti gli uomini giudicano degne di
biasimo e di pena»; l’uniforme orientamento del giudizio etico è tale che non
si troverà mai un uomo che loderà, in coscienza, un atto turpe e biasimerà
un’azione benefica (Elementi, cit., II, pp. 296-297).
6. Dell’impulso al dovere Galluppi
pensava, come si accennava, che fosse congenito, che fosse carattere specifico
della natura umana. E infatti egli non nasconde la convinzione che l’etica non
necessita della fondazione nella certezza della fede, né abbisogna
dell’ancoraggio al rigore della scienza teologica. I principi del bene e del
male, la norma etica che ogni uomo può cogliere immediatamente, semplicemente
«rientrando in se stesso», hanno una loro autonomia che anche Rousseau sostiene
con convinzione, come quando – ricorda Galluppi citando il filosofo francese –
egli segnala che anche in epoca pre-cristiana la coscienza dell’uomo si
ribellava all’immagine desolante di un mondo di dèi ingiusti, impudichi e
dissoluti: certo, «il vizio, armato di sacra autorità, discendeva dal soggiorno
eterno» proponendosi come modello della umana felicità; ma «l’istinto morale lo
respingeva dal cuore degli uomini»; certo, Lucrezia adorava l’impudica Venere,
ma si manteneva casta nel corpo e nel pensiero. Insomma «la santa voce della
natura, piú forte di quella degli dèi, si faceva sentire sulla terra» (Emile,
cit., pp. 351-352).
I principi morali,
pertanto, dice Galluppi sulla scorta di Rousseau, non sono doni liberi e
gratuiti offerti al cuore degli uomini dalla munifica volontà di Dio; essi
invece fanno parte del patrimonio costitutivo dello spirito umano; e
nell’autoriflessione essi rivelano il loro carattere di «verità primitive» che
la coscienza propone all’intelligenza intuitiva, e non quello di nozioni
derivate per via dimostrativa, come vorrebbe Locke, o addirittura, come
vorrebbe Helvétius, di formazioni «spirituali» determinate dall’influenza che
sull’individuo esercita il contesto sociale (Fil. d. Vol., cit., IV, pp.
254-256, 267-268, 279-281).
Ma perché mai Galluppi,
per questioni tanto delicate quanto per lui fondamentali, chiama in aiuto cosí
frequentemente proprio Rousseau, un pensatore ch’egli non esita a definire
lockiano, cioè seguace di quell’empirismo che sta alle spalle dello scetticismo
gnoseologico e del sensualismo etico dell’aborrito Helvétius?
A commento di una
citazione rousseauiana, Galluppi dice: «Io vi ho trascritto questo lungo bel
pezzo dello scrittor ginevrino, perché avendo egli adottato la dottrina di Locke
su l’origine delle nostre idee, non può riguardarsi come sospetto; e ciò
dimostra che l’evidenza l’obbligò ad abbandonare su questo punto il filosofo
inglese» (Elementi, cit., II, p. 300).
L’affermazione
galluppiana, fatta nel contesto dell’esame critico del sensualismo helvetiano,
intende evidenziare il particolare valore che le tesi del «lockiano» Rousseau
assumono nella contestazione delle deformità sostenute dal «lockiano»
Helvétius. Ma la stessa affermazione intende mostrare anche qualcosa di piú:
Rousseau è la testimonianza vissuta del principio che nessuna teorizzazione può
conservare la fedeltà ai propri principi ispiratori fino al punto di spingersi
ad affermare tesi contrarie al vivo dettato della coscienza. Rousseau s’è
fermato al punto giusto, anche se al prezzo di una qualche formale incoerenza;
Helvétius ha invece continuato ostinatamente il suo perverso cammino,
distogliendo intenzionalmente, colpevolmente lo sguardo dalla verità. Il
ginevrino, insomma, mostra che non è da ritenersi necessario il percorso che
dall’empirismo porta al sensismo e allo scetticismo integrale e radicale; della
concezione atea, materialistica, egoistica di un Helvétius non bisogna far
colpa a Locke, uno dei benemeriti padri fondatori della filosofia moderna.
Non ci soffermeremo, in
questa sede, su altri punti in cui Galluppi mostra di condividere gli
orientamenti speculativi di Rousseau. Contro Maupertuis, ad esempio, il quale
escludeva che si potesse dimostrare l’esistenza di Dio a partire dalle
«merveilles de la nature», in quanto l’ordine teleologico delle realtà naturali
è solo apparente, e comunque è smentito da patenti elementi di disordine su cui
per lo piú si preferisce chiudere gli occhi, Galluppi (Saggio, cit., V,
pp. 157-159) indica in Rousseau uno straordinario alleato. A propositi della
casualità delle combinazioni atomiche, sostenuta da Maupertuis, il pensatore
calabrese ricorda quel passo dell’Emilio (Opere, cit., p. 545) in
cui il ginevrino dice:
A
quali occhi non prevenuti l’ordine sensibile dell’universo non annunzia una
suprema intelligenza? E quanti sofismi non bisogna accumulare per disconoscere
l’armonia degli esseri, e l’ammirabile concorso di ogni parte per la
conservazione delle altre! Mi si parli finché si vuole di combinazioni e di
probabilità: a che vi giova ridurmi al silenzio, se non potete condurmi alla
persuasione? E come mi toglierete voi il sentimento involontario che vi
smentisce sempre mio malgrado?... Se mi venissero a dire che dei caratteri di
stampa, gettati a caso, hanno dato l’Eneide bell’e formata, non mi degnerei di
fare un passo per andare a verificare la menzogna.
7. Ci sono, certo, anche elementi
di divergenza tra Galluppi e Rousseau; ma nel discorso del filosofo italiano
essi appaiono intenzionalmente attenuati.
Cosí è, ad es., nel caso
della trattazione relativa alla capacità dei sensi esterni; mentre Rousseau
privilegia il tatto, Galluppi sostiene che «le sensazioni del tatto e quelle
della vista sono sufficienti, tutt’e due, isolatamente, a darmi l’idea
dell’estensione»; ma Galluppi non contesta direttamente la tesi di Rousseau,
preferendo piuttosto confutare quella affine, ma ben piú articolata, sostenuta
da Condillac. E poiché Rousseau sosteneva la sua tesi adducendo indicazioni
circa l’insufficienza della capacità visiva, Galluppi preferisce semplicemente
contrapporre, a questo argomento, il diverso avviso di D’Alembert, secondo cui
la vista non solo è perfettamente in grado di conoscere l’esistenza di oggetti
esterni «estesi» ma addirittura li coglie in modo piú pronto e piú perfetto
(Cfr. Saggio, cit., II, pp. 61 segg.).
Che ci sia in Galluppi un
vivo desiderio di minimizzare le divergenze, lo mostra anche il fatto che,
allorquando affronta il problema dell’identità dell’oggetto «visto» con quello
percepito col tatto, egli adduce a sostegno della sua posizione proprio un
passo dell’Emilio, quello in cui Rousseau parla dei «giochi di notte» (Emile,
cit., p. 139). L’ acuta osservazione rousseauiana che di notte, in un ambiente
chiuso, si può, battendo le mani, individuare dalla risonanza le dimensioni
della stanza e la propria posizione in essa, e dalla direzione del vento che
batte sul volto l’esistenza di porte e finestre, e cosí via; quell’osservazione
dunque, dice Galluppi forzando il testo rousseauiano, dimostra di fatto che un
senso può sostituire l’altro, facendoci conoscere, sia pure in modo diverso, lo
stesso oggetto. Ma, si diceva, Galluppi forza un po’ il testo; perché se pure
dal passo del ginevrino è desumibile che il tatto può, in certe circostanze,
sostituire adeguatamente la vista, dallo stesso brano non è certo arguibile che
la vista possa far le veci del tatto; esso quindi non autorizza in alcun modo
Galluppi a concludere che «la vista non ha dunque bisogno dell’istruzione del
tatto, per vedere fuori di noi» (Saggio, cit., II, p.87); per Rousseau è
vero il contrario: le dimensioni, le forme, le collocazioni degli oggetti
«veduti» han bisogno di un’esperienza tattile per esser davvero conosciute.
In una sola occasione
Galluppi prende veramente le distanze dal «suo» Rousseau. Affrontando la
questione dell’esistenza di un «dio morale», oltre a quella di un «dio fisico»,
fondamento dell’ordine dell’universo, egli ricorda che «il celebre teista»
Rousseau asserisce (Opere, cit., pp. 560-561):
Medito
sull’ordine dell’universo... per adorare il saggio Autore che vi si fa sentire.
Converso con lui, penetro tutte le mie facoltà della sua divina essenza; mi
intenerisco ai suoi benefizi, lo benedico per i suoi doni; ma non lo prego.
Cosa gli domanderei? Che cambiasse per me il corso delle cose, che facesse dei
miracoli in mio favore? Io che devo amare al di sopra di ogni cosa l’ordine
stabilito dalla sua saggezza e mantenuto dalla sua provvidenza, vorrei forse
che quest’ordine fosse turbato per me? No, questo
voto temerario meriterebbe di essere piuttosto punito che esaudito. Non gli domando neppure il potere
di far bene: perché domandargli ciò che mi ha dato? Non mi ha egli dato la
coscienza per amare il bene, la ragione per conoscerlo, la libertà per
sceglierlo? Se faccio il male non ho scusa: lo faccio perché lo voglio:
domandargli di cambiare la mia volontà, è domandargli ciò che egli mi domanda;
è volere che egli faccia l’opera mia e che io ne riscuota la mercede.
Contro queste tesi
Galluppi si esprime con un giudizio di valutazione deciso e insolitamente
«duro». Questa filosofia – dice – è falsa, perché contraria alle inclinazioni
del cuore umano. E ribatte: se si crede in un Dio onnipotente, libero e buono,
è naturale che si faccia appello a Lui affinché ci soccorra contro
l’oppressione del male, e ci aiuti a conseguire e a conservare i beni; anzi la
preghiera è un dovere prescrittoci dalla legge naturale, il cui assolvimento
peraltro è necessario alla nostra felicità; con essa, poi, non si chiede
affatto di mutare l’ordine provvidenziale del mondo, anzitutto perché essa
stessa fa parte di un tale ordine, e poi perché non si chiedono interventi che
producano effetti contrari o anomali rispetto alla vigente legge razionale del
cosmo (Fil. d. Vol., cit., II, pp. 122-124).
La replica galluppiana,
in verità, non rende giustizia allo spessore teoretico del brano rousseauiano;
essa sembra muoversi piuttosto nell’ambito di una logica «apologetica»; c’è
solo un accenno alle implicazioni speculative, ossia solo l’annotazione che il
Dio di Giovan Giacomo, in fondo, non è molto diverso dagli dèi di Epicuro.
Tuttavia Galluppi coglie
nel segno quando indica nel discorso di Rousseau una notevole contraddizione (Fil.
d. Vol., cit., II, p. 126): da una parte – dice – Rousseau pretende che non
si deve pregare Dio per esser virtuosi, e dall’altra poi fa dire al «vicario
savoiardo» (Opere, cit., p. 561 ):
Nella
giusta diffidenza di me stesso, la sola cosa che gli chiedo, o piuttosto che
aspetto dalla sua giustizia, è di correggere il mio errore se mi perdo, e se
questo errore è per me pericoloso.
Coerenza vorrebbe che
neppure una tale richiesta fosse formulata.
Ma Galluppi, tutto
sommato, è ben contento di questa «felix culpa» del ginevrino; anche Rousseau,
perfino lui, alla fin fine dimostra che c’è necessità d’implorare Dio affinché
ispiri l’uomo a ben operare (Fil. d. Vol., cit., II, p. 127).