Tentare il teatro:

Le devin du village e Pygmalion

Amalia Collisani

«Là se firent les prémiéres fêtes, les pieds bondissoient de joye, le geste empressé ne suffisoit plus, la voix l’accompagnoit d’accens passionnés, le plaisir et le desir confondus ensemble se faisoient sentir à la fois. Là fut enfin le vrai berceau des peuples, et du pur cristal des fontaines sortirent les prémiers feux de l’amour».

J.J. RousseauCosì Rousseau nell’Essai sur l’origine des langues [1] descrive poeticamente la nascita del primo linguaggio. È avvenuto uno straordinario mutamento, l’asse terrestre ha mutato inclinazione; [2] la perfettibilità e la libertà del genere umano hanno inquinato la solitudine e il silenzio dello stato di natura; l’amor di sé, la pietà, gli incontri presso le acque correnti hanno prodotto l’amore tra i sessi. I gesti, che comunicano con chiarezza e determinazione, non bastano ad esprimere una passione che sembra traboccare illimitatamente dall’io e che muove insieme con i primi accenti appassionati, le prime danze, le prime feste. L’origine del linguaggio è anche l’origine della danza e della festa. E quell’origine, come lo stato di natura, come i diversi stadi che via via hanno ridefinito il linguaggio, le danze, le feste, è ormai per sempre perduta, anche se, a differenza di quanto può dirsi dello stato di natura, ne conserviamo tracce nell’antichità della nostra cultura e nel presente delle culture meno corrotte dalla ragione e dal progresso.

Il progresso delle arti e delle scienze infatti ha sacrificato alla chiarezza analitica il Sentimento che è invece la comprensione sintetica lancinante; così ha corrotto il linguaggio, articolandolo e discretizzandolo per renderlo più idoneo a comunicare i contenuti concettuali determinati; privandolo delle intonazioni melodiche che, mosse dalle passioni e quindi più adatte ad esprimerle, sono però ormai anch’esse discrete e dunque inadeguate e parziali; così ha degradato la festa facendone la rappresentazione di eventi determinati: il teatro.

Le arti e le scienze sono contemporaneamente motore e frutto della corruzione. Ma le arti hanno una responsabilità in più rispetto alle scienze: queste infatti parcellizzano e segmentano un materiale irrimediabilmente discreto qual’è quello dei concetti. Le arti invece si prefiggono di imitare il sentire che precede il pensare, la profondità dell’io nella sua integrità. Uno dei luoghi problematici e irrisolti del pensiero di Rousseau, contraddittorio per quel che riguarda tanto i livelli concettuali che quelli esistenziali, e diversamente interpretato dai suoi esegeti, è proprio questo: se anche le arti finiscano necessariamente col mentire, perché la verità non può essere comunicata senza frammentarla e dunque senza mutarne l’essenza; o se invece non possano riguadagnare, servendosi di strumenti sempre nuovi, adoperate da un uomo virtuoso e geniale, il Sentimento, unica verità.

Sono convinta che la concezione di musica elaborata da Rousseau contribuisca a illuminare questa problematica, specialmente se messa a confronto con le sue prove di teatro musicale (appartengo infatti alla schiera di coloro che ritengono che il pensiero di Rousseau non possa essere separato dalla sua esperienza; e questo per due buoni motivi: perch’egli talvolta si esprimeva mediante i gesti e perché ha disseminato tutti i suoi scritti di ricordi e riflessioni autobiografiche; si è anzi in qualche modo costretti e, da lui stesso, trascinati a valutarne il senso; e non ci resta che, ove possibile, distinguere i fatti documentati dall’immagine che egli se ne costruiva o che costruiva per noi - ammesso che questa distinzione sia utile). Penso anche che la sua idea di musica rifletta il grande mutamento di lingua e di stile che contemporaneamente si svolgeva nella musica occidentale e mostri quanto e come quel mutamento non abbia esaurito le sue potenzialità almeno fino al secolo appena compiuto.

« J. J. étoit né pour la Musique » [3] e amava il teatro «à la passion»; [4] il teatro musicale - si sa - era oggetto di speciale attenzione da parte dei philosophes, e più in generale degli illuministi; anzi, si può dire che in modo concorde tutta la cultura dell’epoca, non soltanto francese, lo considerava tra i generi musicali il più alto e glielo indicava come preferibile per le sue prove di compositore. Rousseau lo amava già quand’era giunto a Parigi, ma la sua curiosità e la sua sensibilità lo inducevano a conoscere e provare anche altri generi; musica sacra, canzoni, e anche musica strumentale: non avrebbe altrimenti scritto sull’Encyclopèdie che «rien n’est si beau qu’un Solo de Tartini». [5]

"Le devin du village."Ma è certo l’opera italiana quella su cui concentra la sua attenzione. Come tutti abbiamo letto nell’ottavo libro delle Confessions, mentre nella primavera del 1752 si trovava a Passy ospite del signor de Mussard, una notte non riesce a prendere sonno, interrogandosi su come poter dare alla Francia l’equivalente drammatico di quelle «Opere buffe» che aveva ascoltato in Italia, e che proprio quella sera erano state oggetto di lunga conversazione. Al mattino si mette subito a comporre Le devin du village: [6] non ci lascia dubbi rispetto al ruolo che si assume - o comunque vuol dirci di essersi assunto - componendo questa sua delicata operina. Nel Devin è raffigurata una comunità di pastori e contadini, retta da un Indovino che ha modi paterni e carismatici, raffigurata dunque non molto diversamente da quella di Clerens nella Nouvelle Heloise, e da quelle dei Montagnons e degli stessi Ginevrini nella Lettre à D’Alembert. Colin e Colette sono sottoposti alle tentazioni e alle seduzioni della vicina città; resistono, seguendo i suggerimenti dell’Indovino, e celebrano la loro vittoria e l’ amore ritrovato insieme con i ragazzi e le ragazze del villaggio che sono accorsi a festeggiarli e che cantano in coro, ritornellano le chansons dei tre protagonisti, danzano. Ma la festa, contrariamente a quel che ci si potrebbe aspettare e a quel che comunque ci appare a primo ascolto, non funziona drammaticamente come finale: copre circa metà dell’intera opera; potremmo semmai considerare tutto il precedente svolgersi della vicenda come prologo o, meglio, come giustificazione della festa; questa infatti è il vero fulcro concettuale dell’opera in quanto confluenza di arte e natura, o di quel che resta per noi più vicino all’idea di natura: spontaneità, rifiuto dei costumi civilizzati e urbanizzati, espressione di un sentimento corale attraverso canti e danze.

Si tratta però di non di una vera festa ma di una rappresentazione della festa, di una festa finta, come lo è quella di Clerens. [7] Eppure, durante la prima messa in scena a Fontainenbleau (ottobre 1752), Rousseau piange; ma - scriverà nelle Confessions - commosso più dal piacere di commuovere le spettatrici con la sua opera, che dall’opera stessa. È il caso di ricordare il disprezzo che in altre occasioni Rousseau mostra di nutrire nei confronti delle spettatrici parigine. [8] E infatti nei Dialogues prenderà le distanze da quel «chuchotement de femmes qui lui sembloient belles comme des anges, et qui s’entredisoient à demi-voix: cela est charmant, cela est ravissant; il n’y a pas un son là qui ne parle au cœur», [9] affermando di non riconoscere le bellezze del Devin «ou le public engoué les place».[10]

Cabane de J.J. Rousseau, à Ermenonville

Ma qual’è allora il giudizio di Rousseau sul Devin? pensò egli di avere ottemperato al compito che si era assunto a Passy di dare ai Francesi un’opera che avesse le qualità di quelle italiane? e di più: mentre intanto veniva rappresentata a Parigi La serva padrona (1 agosto 1752), scoppiava la grande querelle, veniva pubblicata la Lettre sur la musique françoise (novembre 1753), credette Rousseau di essere riuscito a rappresentare - o che fosse possibile rappresentare - la semplicità dei costumi, l’ingenuità di due pastori, la spontaneità della danza che accompagna la loro riconciliazione? e tutto questo intonando una lingua atona, fatta solo per ragionare e per mentire? Direi di no. Probabilmente egli vide nella sua musica, orecchiabile e gradevole, i limiti derivanti dalla sua inadeguata abilità compositiva; ma forse anche il fallimento della sua speranza di Verità. [11]

Certo è che, dopo il successo del Devin, egli smise di comporre, o meglio non pubblicò più né fece più eseguire pubblicamente sue musiche nuove, proprio come aveva preannunziato, con una certa enfasi, nella parte soppressa dell’«Avertissement» della Lettre: «Arbitres de la Musique et de l’Opera, hommes et femmes à la mode, je prens congé de vous pour jamais, et je me féliciterai tous les jours de ma vie d’avoir surmonté la tentation de vous ennuyer une seconde fois de mes amusemens». [12] Eppure nulla gli sarebbe stato utile, quanto il continuare a comporre, per confutare l’accusa di plagio da cui continuò sempre a difendersi con i suoi scritti: nelle Confessions, nei Dialogues, con il Dictionnaire.

A riprova del suo scontento, circa vent’anni più tardi, nel 1774, riscrisse alcune parti del Devin e, in novembre, le fece ascoltare, accompagnandosi al clavicembalo, a François de Cambrier che annotò l’avvenimento nel suo diario e in una lettera scrisse: «il est plus content de cette derniére production que de la première (...) le mal est qu’il ne veut point le donner au publico(...)». [13]

Infine, anche se nei Dialogues Rousseau si dilunga a vantare l’autenticità e le qualità del Devin, abbiamo anche una testimonianza, per quel che può valere, della sua profonda insoddisfazione: al poeta Christian Felix Weisse avrebbe detto: «c’est une bagatelle, je ne l’ai faite, que pour voir, quelles bêtes sont ces François-la, pour pouvoir goûter une telle misére». [14]

Troppo poco, malgrado tutto, per tentare una risposta all’interrogativo sui motivi che lo allontanarono dal teatro musicale: se Rousseau avesse valutato negativamente le proprie capacità, se non avesse invece pesato il dispregio nei confronti del pubblico, se, come generalmente si pensa, non fosse stato distratto dalla filosofia; se per coerenza col suo giudizio morale; se invece perché né il modello italiano né la finta spontaneità dell’ambiente pastorale, potevano supportare quell’idea più alta di musica ch’egli intanto andava maturando.

Io penso che la Lettre sur la musique françoise, scritta probabilmente tra la primavera e l’estate del 1753 dopo la prima parigina del Devin (1 marzo), sarebbe totalmente dissennata se non la si leggesse in questa chiave: in essa Rousseau mostra come si può ovviare compositivamente ai difetti della lingua francese, indicando passo passo le soluzioni stilistiche adottate nel Devin, e infine precisando come Lulli avrebbe dovuto comporre il famoso monologo di Armide. Alla fine, con vibrante invettiva, svela nel climax retorico il suo coinvolgimento, dichiara l’inutilità di tutto quel che ha appena finito di esporre («les François n’ont point de Musique et n’en peuvent avoir»), confessa la sua frustrazione («si jamais ils en ont une, ce sera tant pis pour eux»). Nella nota a piè di pagina, per togliere ogni dubbio, chiama «dégoûtant assemblage (...) trop monstrueux pour être admis» [15] il mettere insieme una melodia di tipo italiano e la lingua francese, cosa che lui stesso in qualche modo aveva tentato in alcune parti del Devin.

"Lettre sur la musique."Nella Lettre inoltre Rousseau enuncia per la prima volta quel principio di unité de mélodie da lui ’ritrovato’ nella musica italiana e che rimane il fulcro della sua estetica musicale anche, più tardi, negli anni del Dictionnaire: la forma compositiva che conferisce alla musica espressione e bellezza insieme, in cui l’armonia «qui devroit étouffer la Mélodie, l’anime, la renforce, la détermine: les diverses Parties, sans se confondre, concourrent au même effet; et quoique chacune d’elles paroisse avoir son Chant propre, de toutes ces Parties réunies, on n’entend sortir qu’un seul et même Chant», e dove - per di più -«il y a même des Harmonies savantes et bien ménagées, où la Mélodie sans être dans aucune Partie, résulte soulement de l’effet du tout». [16]. Si vede come, molto al di là di Rameau, egli colga il senso dello sviluppo e della fortuna del sistema tonale e descriva, senza conoscerlo, l’effetto percettivo dello ’stile classico’ della Scuola viennese in cui la melodia emerge come gestalt. Forse proprio l’idea di unité de mélodie evidenziò ai suoi occhi i limiti del Devin che si esaurisce nella semplicità e cantabilità, in furlane e pastorellerie, e non fa emergere la coerenza discorsiva come risultante della ricchezza e delle tensioni delle componenti stilistiche. Io credo che anche la citazione de Les Troqueurs di Dauvergne (ch’era andato in scena il 30 luglio di quell’anno) sia utilizzata cripticamente per riferirsi a se stesso: «on a applaudi cet été à l’Opera comique l’ouvrage d’un homme de talent qui paroît avoir écouté de la bonne Musique avec de bonnes oreilles, et qui en a traduit le genre en François d’aussi près qu’il était possible; ses accompagnemens sont bien imités sans être copiés, et s’il n’a point fait de chant, c’est qu’il n’est pas possible d’en faire». [17]

I contemporanei di Rousseau non mancarono di mettere in evidenza, con diverse intenzioni, che il Devin du village smentisce quel che la Lettre afferma nella sua ultima parte, [18]ma sembrano tutti dimenticare che il Devin fu composto e messo in scena prima che la Lettre fosse rispettivamente scritta e pubblicata: è la Lettre semmai che smentisce il Devin.

Non posso in questa sede esporre come negli anni cruciali dell’elaborazione filosofica, pedagogica, socio-politica Rousseau venisse intanto contemporaneamente maturando il suo pensiero musicale; dirò qualcosa sinteticamente su alcune delle sue tesi che, a mio giudizio, sono spesso fraintese:

- la più valida musica moderna («imitative») imita, appunto, la forma sonora delle passioni; questa imitazione è possibile perché le passioni hanno talvolta «un caractère rhythmique aussi bien qu’un caractère mélodieux, absolu et indépendant de la Langue»; [19] la musica imitativa le restituisce, con la coerenza costruttiva e percettiva dell’unité de mélodie, alla loro essenza pre-concettuale e pre-linguistica. Dal Dictionnaire si desume infatti che l’unité de mélodie è per Rousseau il rimedio alla frantumazione e disgregazione che la storia e il progresso hanno operato nella lineare semplicità del canto, e il magnetismo della tonalità è lo strumento che fa emergere la risultante melodica come imitazione dell’interiorità, recuperando all’espressione patetica l’immediatezza e la totalità che - sappiamo - sono l’unica garanzia di verità. [20] In contrapposizione a questa musica imitativa, quella cosidetta «naturelle» [21]organizza le sonorità in base alla struttura fisica del suono che gli accordi dell’armonia tonale imitano parzialmente e imperfettamente; questi difetti dell’imitazione caldeggiata da Rameau vengono analizzati, l’uno specialmente, nell’Examen de deux principes avancés par M.Rameau [22] (1755) e, l’altro, nell’Essai, [23] con gli stessi argomenti che userà Schönberg per confutare la pretesa naturalità del sistema tonale; Rousseau, nel momento in cui di questo prevede il prossimo felice destino, ne comprende anche la relatività storica e culturale che soltanto all’inizio del XX secolo sarà ufficialmente dichiarata.

- La musica imitativa trova il suo luogo d’elezione nel teatro, in cui tutta la ricchezza moderna degli strumenti e delle voci può dispiegarsi, restando autonomamente espressiva: non si pensi che la musica operistica cui si riferisce Rousseau si esaurisca nella parte vocale; già nella Lettre sur la musique françoise, Rousseau critica Lulli per non aver affidato agli strumenti quel che le parole non erano in grado di dire, per non avere riempito di suono e di senso le pause, i silenzi di Armide; [24] nel Dictionnaire egli è ancora più esplicito, specialmente quando descrive i progressi della musica operistica italiana: «la mélodie, qui ne s’étoit d’abord séparée de la poésie que par nécessité, tira parti de cette indépendance pour se donner des beautés absolues et purement musicales: l’harmonie découverte ou perfectionnée lui ouvrit de nouvelles routes pour plaire et pour émouvoir; et la mesure, affranchie de la gêne du rhythme poétique, acquit aussi une sorte de cadence à part, qu’elle ne tenoit que d’elle seule. La musique, étant ainsi devenue un troisième art d’imitation, eut bien-tôt son langage, son expression, ses tableaux, tout-à-fait indépendans de la poésie. La symphonie même apprit à parler sans le secours des paroles, et souvent il ne sortoit pas des sentimens moin vifs de l’orchestre que de la bouche des Acteurs».

- La musica dunque per essere imitativa non deve vagheggiare gli accenti del primo linguaggio e neppure il movimento melodico della voce che i Greci usavano senza altezze discretizzate nel parlare quotidiano, grazie al quale essi sviluppavano le loro tragedie come un lungo recitativo. [25] A causa delle fratture che il progresso della razionalità ha apportato nel linguaggio e nella musica noi moderni siamo stati costretti ad alternare i recitativi alle arie e a svolgere separatamente le ragioni dell’azione e del sentimento: una strategia drammatico-musicale che può produrre straordinari risultati. [26]

- La lingua francese è assai più sorda di quella italiana; ma non soltanto perché le sue vocali sono spesso mute e i suoni nasali è inadatta alla musica; piuttosto ha vocali mute e suoni nasali perché si è strutturata per ragionare, per segmentare concetti; ed è dunque una lingua mendace: per questo non può essere messa in musica. [27]

Così Rousseau un’altra volta si convinse a tentare un nuovo teatro musicale per i Francesi, questa volta su un soggetto che affrontava più direttamente il rapporto tra arte e natura: il mito di Pigmalione e Galatea. Nei Metamorfoseon libri ovidiani la statua scolpita da Pigmalione «virginis est verae facies, quam vivere credas»; e l’autore fa il suo folgorante commento: «ars adeo latet arte sua»; anche Rousseau nel Dictionnaire scrive: «l’on senti que le chef-d’œuvre de la musique étoit de se faire oublier elle-même», [28] ma il suo Pygmalion (ed egli con lui) non dimentica che Galatea è pietra, da lui scolpita, forma artificiosa; la sua bellezza e la sua verosimiglianza sono un offesa per la natura; si rivolge a Venere per chiedere non un miracolo, non di sovvertire l’ordine naturale, ma di ristabilirlo: «je n’attends point un prodige; il existe, il doit cesser; l’ordre est troublé, la nature est outragée; rends leur empire à ses lois, rétablis son cours bienfaisant; (...) épargne cet affront à la nature, qu’un si parfait modele soit l’image de ce qui n’est pas». [29]Pygmalion non vince sulla natura ma la concilia con l’arte, occultandosi quest’ultima nel momento in cui Galatea prende vita. [30]

Per dare veste musicale a un argomento così centrale nel suo pensiero ideò una radicale invenzione drammatica, il melologo, che rispondeva ad almeno due esigenze: quella del non forzare nel suono una lingua che gli era impermeabile, e quella di perfezionare l’articolazione e la funzione di recitativi (o parlati) e arie, alternando la recitazione con interventi strumentali: la sonorità orchestrale dispiega le sue qualità imitative, e la voce umana, per contrasto, emerge nella sua denudata fisicità. Dovranno trascorrere quasi centocinquant’anni perché queste qualità del melologo vengano squadernate, naturalmente in ben diverso ambito stilistico e anche con diverso esito formale, nel Pierrot lunaire, da quello Schönberg che con la Sprechstimme cercava a sua volta un’espressione prelinguistica e preconcettuale: «una nuova espressione...una sorta di vera e propria espressione animale dei sensi e dell’anima»; [31 ](lo stesso Schönberg - mi si perdoni quest’ultima analogia che richiederebbe ben altro approfondimento - che non portò a termine la composizione del Moses und Aron, opera che indagava il meccanismo corruttore della rappresentazione).

Così Rousseau compose soltanto una minima parte delle musiche del Pygmalion. Non si pensi che l’aver lasciato che lo portasse a termine un compositore dilettante come Coignet significhi che non attribuiva loro molta importanza. Il modo in cui questo avvenne, quasi per caso e sull’onda di una improvvisa simpatia, [32] l’aver lamentato che, mettendolo in scena a Parigi senza il suo permesso, ne fosse nato «ce risible scandale qui n’a fait rire personne, et dont nul n’a senti la comique absurdité» [33], il desiderio più volte espresso che fosse Gluck a comporle, [34] e, per quel che vale, tutto quello che ho detto in questa relazione, ci fanno credere che avesse una ben diversa opinione. Non mi pare si possa escludere che Rousseau non avesse voluto andare avanti nella composizione sopraffatto dalla sua ambizione, sgomento nell’attribuirsi il compito di Pygmalion di conciliare arte e natura. Al di là di quanto non avesse tentato diciotto anni prima con l’idillica semplicità della sua operina: creare una musica capace di farsi dimenticare


 

[1] Œuvres complètes, Paris, Gallimard 1959-95 (d’ora in poi OC), vol. V, pp. 369-429: 406. Questo celebre passo si legge nel IX capitolo: "Formation des langues méridionales".

[2] "Celui qui voulut que l’homme fut sociable touchat du doigt l’axe du globe et l’inclina sur l’axe de l’univers": ivi, p. 401.

[3] Rousseau juge de Jean Jacques. Dialogues, OC, vol. I, pp. 657-992: 872.

[4] J. J. Rousseau citoyen de Gèneve, à M. D’Alembert, OC, vol. V, pp. 1-125: 120.

[5] Nell’articolo "Solo". (Rousseau scrisse le voci per l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert nel 1749).

[6] Cfr. Les confessions, OC, vol. I, pp. 1-656: 373-375.

[7] Cfr. Jean Starobinski, La trasparenza e l’ostacolo, trad. di R. Albertini, Bologna, Il Mulino, 1982. Una moralistica condanna della rappresentazione Rousseau, com’è noto, espresse apoditticamente nella Lettre à M. D’Alembert, cit. Su questa condanna e sulle ricadute ideologiche ch’essa aveva, o che ne furono tratte, cfr. Elio Franzini, Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, Palermo, Centro Internazionale Studi di Estetica (Aestetica preprint), 2002.

[8] Cfr., per esempio, in Julie, ou la nouvelle Héloïse, OC, vol. II pp. 1-794, la lettera XXXI della prima parte, pp. 265 e ss., o nella Lettre à D’Alembert, cit., le pp. 44 e ss.

[9] Les confessions, cit., p. 378-379.

[10] Rousseau juge de Jean Jacques, cit., p. 682.

[11] Ho già trattato questo argomento più estesamente ma, credo, con minore competenza, molti anni fa: Dall’"Essai" alla "Lettre": ancora una volta Jean-Jacques juge de Jean-Jacques, "Rivista Italiana di Musicologia", XXIII (1988), pp. 242-278.

[12] Lettre sur la musique françoise, OC, vol. V, pp. 287-328: 289. Rousseau pregò il suo editore olandese, Marc-Michel Rey, di sopprimere questo e il successivo paragrafo mentre già la Lettre andava in stampa, cfr. ivi, nota a.

[13] Correspondance complète de Jean-Jacques Rousseau, édition critique établie et annotée par R. A. Leigh, Oxford, The Voltaire Foundation, 1981 (d’ora in poi CC), vol. XXXIX, 7054; cfr. anche 7052.

[14] Christian Felix Weisse, Selbstbiographie, CC, VII, A 227.

[15] Lettre sur la musique françoise, cit., p. 328.

[16] Dictionnaire de musique, OC, vol.V, pp. 603-1191, "Unité de mélodie", p.1145.

[17] Lettre sur la musique françoise, cit., p. 328.

[18] Cfr., per es., CC, vol. XL, 7120.

[19] Dictionnaire de musique, cit., "Rhythme", p. 1026.

[20] Cfr. Brenno Boccadoro, Tartini, Rousseau et les Lumières, OC, vol. V, pp. 1694-711 e il mio Musica, canto, parola nel Dictionnaire de musique di Jean-Jacques Rousseau, "Studi di estetica", XXX, III serie (2002), pp.117-149.

[21] Il termine è usato, con sfumatura ironica, in base al significato attribuitogli da Rameau. La contrapposizione tra "musique imitative" e "naturelle" viene esposta da Rousseau alle voci "Composition", "Musique", "Opéra", "Unité de mélodie" del Dictionnaire, cit., pp. 721-722, 918, 948-949, 1143-1146. Ne ho scritto più estesamente in "Le vrai sauvage ne chanta jamais": l’origine e la musica nel Dictionnaire di Rousseau, "Rivista Italiana di Musicologia", XXXI/1 (1996), pp.61-90.

[22] "( ...) il est certain que tout son est accompagné de trois autres sons harmoniques concomitans ou accessoires, qui forment avec lui un Accord parfait tierce majeure(...). Mais outre ces trois sons harmoniques, chaque son principal en donne beaucoup d’autres qui ne sont point harmoniques, et n’entrent point dans l’Accord parfait. Telles sont toutes les aliquotes non reductibles par leurs Octaves à quelqu’une de ces trois prémiéres. Or il y a une infinité de ces aliquotes qui peuvent échapper à nos sens, mais dont la résonance est démontrée par induction et n’est pas impossible à confirmer par experience. L’Art les a rejettées de l’Harmonie, et voila où il a commencé à substituer ses régles à celle de la Nature": Examen de deux principes avancés par M.Rameau dans sa brochure intitulée: Erreurs sur la musique, dans l’Encyclopédie, OC, vol.V, pp. 345-366: 351.

[23] "Un son porte avec lui tous ses sons harmoniques concomitans, dans les raports de force et d’intervalle qu’ils doivent avoir entre eux pour donner la plus parfaite harmonie de ce même son. Ajoûtez-y la tierce ou la quinte ou quelque autre consonance, vous ne l’ajoûtez pas, vous la redoublez; vous laissez le raport d’intervalle, mais vous altérez celui de force: en renforçant une consonance et non pas les autres vous rompez la proportion: En voulant faire mieux que la nature vous faites plus mal": Essai sur l’origine des langues, OC, vol.V, pp. 361-429: 415.

[24] "(...) et il a fait un silence qu’il n’a rempli de rien, dans un moment où Armide avoit tant de choses à sentir et par conséquent l’orchestre à exprimer": Lettre sur la musique françoise, cit., p. 324.

[25] Sul recitativo, sulla sua relazione col parlare dei Greci antichi, su come questi potevano usarlo nelle loro tragedie, e su come per noi abbia perso l’energia espressiva che pure talvolta miracolosamente riacquista, rinvio specialmente alle voci "Recitatif" e "Opéra" del Dictionnaire, cit., e, per quel che ne ho già scritto, ai miei Musica, canto, parola..., cit. e Il melologo, Pigmalione e Pierrot, "Avidi Lumi" n. 7 (1999/2). L’argomento richiedererebbe ulteriore approfondimento, specialmente considerando che da parte dei contemporanei di Rousseau - parlo di contemporanei come Coignet e Burney che per diversi motivi possono considerarsi testimoni fondamentali della sua esperienza teatrale - prevaleva l’opinione (non del tutto superata) che nel Pygmalion egli avesse voluto ricreare la melopea dell’antichità: cfr., per es., CC, vol. XXXVIII, 6816 (Horace Coignet à Jacques Lacombe), e 6861 (le docteur Burney à Rousseau).

[26] Cfr. specialmente le voci relative al teatro musicale nel Dictionnaire, cit. Con questa opinione Rousseau dissente da quelle generalmente espresse dai philosophes e dagli illuministi italiani.

[27] Cfr. specialmente la Lettre sur la musique françoise e l’ultimo capitolo dell’Essai sur l’origine des langues, citt.

[28] Dictionnaire de musique, cit., "Opéra ", p. 954.

[29] Pygmalion. Scéne lyrique, OC, vol. II, pp. 1224-31: 1227 e 1228-29.

[30] Anche su questo argomento ho scritto con maggiori dettagli nell’ambito di un confronto tra Pygmalion e Orphée nell’immaginario di Rousseau: L’Orfeo di Rousseau: Pygmalion, in Orfeo, il mito, la musica. Percorsi tra musicologia e antropologia musicale a cura di Stefano Leoni, Torino, Trauben 2002, pp. 185-195.

[31] Arnold Schönberg, Diario Berlinese, trad. in Charles Rosen, Arnold Schönberg, Verona, Mondadori 1984, p. 149.

[32] Come racconta lo stesso Coignet, cfr. CC, vol. XXXVIII, A 592.

[33] Rousseau juge de Jean Jacques, cit. p. 964; questa frase, piuttosto ambigua in verità, può essere interpretata, come fa in nota Robert Osmont, ivi, 1742-43, cfr. anche CC, XL, 7069, «notes explicatives», nel senso di una palese inadeguatezza della musica al testo, che Rousseau riteneva umiliante fino al ridicolo.

[34] Cfr., per es., ivi.

 


Relazione proposta alla Giornata di studio sul tema "Musica, maschera, ritualizzazione" organizzato dal Seminario Permanente di Filosofia della musica, in data 16 ottobre 2003.


Ritorna all’inizio dell’articolo
ritorna all'indice degli argomenti


Download

WebDesigner:
Kata Sowa