Bollettino telematico di filosofia politica

Il labirinto della cattedrale di Chartres
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Ultimo aggiornamento 29 ottobre 2003

 

 

Luca Alici*

Rousseau e il repubblicanesimo

 

Premessa

In questo testo tenterò di cogliere sviluppi e alcuni esiti della teoria repubblicana dell’ordine politico e della libertà, per fornirne una reinterpretazione alla luce della riflessione di Jean-Jacques Rousseau, in tre momenti:

1) Innanzitutto affronterò il dibattito attuale sul repubblicanesimo, cercando di illustrare i temi principali attorno ai quali si articola.

2) In secondo luogo cercherò di focalizzare l’attenzione sugli aspetti che, a mio avviso, collegano la riflessione di Rousseau alla prospettiva repubblicana: emergerà un Rousseau lettore di Aristotele e Machiavelli, la cui antropologia sarà fondamentale per inquadrare nozioni centrali nell’ambito del nostro itinerario, come quelle di libertà, legge e virtù civile.

3) Infine proverò a offrire un’interpretazione in chiave non individualistica del repubblicanesimo, che ruota attorno alle idee russoiane di comunità ed identità e che non dovrebbe prestarsi, per la sua interna morfologia, all’accusa di organicismo, mentre risultà vicina ad alcuni concetti portanti del comunitarismo.

 

Il repubblicanesimo

Repubblicanesimo è un concetto politico di recente formazione. Elaborato dapprima dalla ricerca storica, è passato a occupare un ruolo sempre più importante nei testi di politica solo negli ultimi vent’anni”1. Questo concetto ha conquistato, notoriamente, una porzione importante del dibattito politico contemporaneo, grazie soprattutto a Pocock, Skinner e Pettit.

Pocock, nel suo Il momento machiavelliano, espone, agli inizi degli anni Ottanta, un’ipotesi interpretativa, fondata sull’idea che sia possibile innanzitutto riscontrare una continuità teorica tra l’umanesimo fiorentino, e in particolare Machiavelli, gli anni dell’Interregno (e più in specifico Harrington) e le riflessioni dei rivoluzionari americani; in secondo luogo, Pocock propone una lettura secondo cui le idee cardine che animano tale tradizione repubblicana sono da considerarsi riformulazioni di idee chiave aristoteliche: il cittadino di Machiavelli e dei repubblicani inglesi non è altro che la reincarnazione dello zoon politikon di aristotelica memoria; la vita politica da loro concepita è pensata come la piena realizzazione dell’individuo; si parla nuovamente di una nozione condivisa del bene comune. Il repubblicanesimo nasce quindi come una forma di aristotelismo politico, in cui divengono fondamentali le idee di partecipazione al potere politico e di realizzazione della natura umana nel contesto pubblico: “Il repubblicanesimo classico […] altro non fu in sostanza che una riformulazione della scienza politica esposta da Aristotele nella sua Politica e proprio tale scienza si dimostrò quanto mai flessibile e idonea a rendere ragione dei fenomeni sociali dei secoli decimosettimo e decimottavo”2. Secondo Pocock, infatti, “le idee proprie della tradizione dell’umanesimo civile (quella mescolanza di aristotelismo e di machiavellismo sulla natura dello zoon politikon) forniscono una chiave per capire i paradossi delle tensioni moderne tra la consapevolezza che l’individuo ha della propria personalità, da un lato, e, dall’altro, la coscienza della società, della proprietà, della storia”3. Infatti identificano “l’uomo onesto e probo nel cittadino (civis), [trasportano] la virtù nella sfera politica […], rendendo poi dipendente la virtù del singolo dalla virtù degli altri suoi concittadini. Se la virtus poteva esistere solo quando c’erano dei cittadini associati per realizzare una res publica, allora la politeia ossia la costituzione e l’organizzazione della comunità politica (vale a dire: la struttura funzionalmente differenziata che Aristotele aveva teorizzato per consentire la partecipazione alla cosa pubblica) in pratica veniva ad identificarsi proprio con la virtù”4.

Skinner propone una interpretazione diversa sia dal punto di vista della ricostruzione storica, sia sul piano teoretico. Innanzitutto mette in luce il legame tra repubblicanesimo e tradizione romana, piuttosto che nei confronti della grecità, e quindi svincola il repubblicanesimo da ogni matrice aristotelica. Vi è a suo avviso una ideologia repubblicana abbastanza definita già dal XIII secolo in Italia, la quale si ispira al pensiero romano – Cicerone, Livio, Sallustio – e si radica prima dell’arrivo della filosofia pratica aristotelica in Occidente: se “analizziamo la teoria repubblicana della libertà politica, - scrive Skinner - possiamo vedere che la libertà individuale è connessa con la virtù civile senza ricorrere a nessuna dottrina della realizzazione umana”5; egli non presenta l’uomo “come un animal politicum et sociale, per usare l’espressione tomistica, ma come un essere esposto alla ‘corruzione’, un essere che tende a trascurare i propri doveri verso la collettività; nella res publica […] gli individui perseguono fini diversi gli uni dagli altri, non si può assumere l’esistenza di fini necessariamente condivisi da tutti”6. In questo modo il repubblicanesimo perde ogni vincolo metafisico e si presenta come terza via tra l’individualismo liberale e il comunitarismo di matrice aristotelica.

Argomento del contendere è dunque la possibilità di una concezione condivisa di bene comune e di una idea della comunità politica come luogo di realizzazione dell’uomo, che Pocock accetta, mentre Skinner respinge. Così scrive proprio quest’ultimo: “Questi scrittori [gli scrittori repubblicani] non sono affatto dei pensatori aristotelici e non si richiamano in alcun modo a una visione ‘positiva’ della libertà sociale. Essi, cioè, non sostengono mai che siamo esseri morali dotati di certi fini determinati e che quindi siamo liberi nel senso più proprio solo quando questi fini vengono attuati […], essi usano un concetto puramente negativo di libertà inteso come assenza di impedimenti nella realizzazione dei fini che ci si è dati”7

John Rawls preciserà questa distinzione parlando di classical republicanism e civic republicanism per designare rispettivamente l’interpretazione alla Pocock o alla Skinner del repubblicanesimo. 8

La discussione si fa ancora più articolata se l’attenzione si sposta sul concetto di libertà. Non si tratta infatti semplicemente di ripresentare la distinzione tra libertà positiva (Pocock) e libertà negativa (Skinner), ma, all’interno del concetto di libertà come immunità da interferenze altrui e assenza di dipendenze, è necessario aggiungere una nuova figura. Il confronto coinvolge a questo proposito Skinner e Pettit: quest’ultimo arriva infatti a sostenere che la libertà repubblicana costituisca una terza famiglia all’interno delle concezioni della libertà. Se “la libertà negativa si configura come assenza di interferenza, la libertà dei repubblicani si presenta piuttosto come assenza di dominio da parte di altri” 9. Quale in concreto allora la differenza?

Si è sottoposti a dominio quando si è soggetti alla volontà arbitraria di un altro, alla sua interferenza arbitraria; l’altro, però, può decidere per lunghi periodi di non interferire di fatto: si può così essere sottoposti a forme di dominio senza subire interferenze dirette. La concezione repubblicana della libertà come assenza di dominio tiene conto non solo delle interferenze attuali, ma anche delle interferenze potenziali. L’ideale repubblicano della libertà non si propone semplicemente di eliminare ogni interferenza attuale, ma intende mettere al bando tutte le potenziali interferenze di carattere arbitrario”10. Ciò comporta, secondo Pettit, maggiori garanzie e sicurezze per l’individuo e un’idea di libertà che “avrebbe un elemento concettuale in comune con la concezione negativa – il privilegiare l’assenza, non la presenza – e un elemento in comune con quella positiva: il privilegiamento della padronanza, non dell’interferenza”11. Pettit parla dunque per primo della concezione repubblicana della libertà come di una terza famiglia, di una terza via tra l’idea di libertà negativa, come concetto che richiama l’opportunità, e l’idea positiva di libertà, come concetto che rinvia all’esercizio12.

Skinner, in seguito a questo confronto, opera una revisione della sua idea negativa della libertà, secondo cui la libertà non è autodeterminazione collettiva. Privilegiando il debito nei confronti del pensiero e delle istituzioni della repubblica romana, elabora quella che definisce la “teoria neo-romana della libertà”. Se infatti nei “saggi degli anni ’80 Skinner sosteneva che la divergenza tra repubblicani e liberali non verteva sul significato della libertà, ma essenzialmente sui mezzi necessari a conservare e garantire la libertà stessa”13, respingendo meccanismi impersonali di garanzia e tutela, il confronto con Pettit porta l’attenzione sul significato della costrizione. E’ lo stesso Pettit a sottolineare queste differenze: “Mentre io sostengo che per i repubblicani la libertà equivaleva al non dominio – la non dipendenza dalla volontà altrui – egli [Skinner] ritiene che i romani e i neoromani ripudiassero in egual misura tutte le forme di dominio e tutte le forme d’interferenza, compresa l’interferenza non arbitraria, esercitata da un governo della legge degno di questo nome […]. Skinner propone un antonimo della nozione di libertà orizzontalmente complesso: dominio e interferenza: per quanto mi riguarda invece privilegio un antonimo verticalmente complesso: in primo luogo, dominio; in secondo, subordinato luogo, fattori condizionanti che includono l’interferenza”14.

Ne consegue che per Pettit può “darsi dominio senza interferenza perché, in quanto tale, esso richiede semplicemente che qualcuno abbia la capacità di interferire arbitrariamente nei tuoi affari; non c’è bisogno che qualcuno interferisca effettivamente. Può darsi poi interferenza senza dominio in quanto l’interferenza non comporta di necessità l’esercizio nella capacità di interferire in maniera arbitraria, ma solo l’esercizio di una facoltà assai più limitata”15.

Emerge, dunque, un percorso articolato, talvolta contraddittorio, che apre importanti questioni su cui riflettere, relativamente alle quali l’opera di Rousseau può offrire spunti interessanti.

 

Rousseau, Aristotele e Machiavelli

Per introdurre il pensiero di Rousseau nel dibattito relativo al repubblicanesimo mi soffermo sul Rousseau lettore di Aristotele e di Machiavelli e interprete di un clima politico che vede il diffondersi del sentimento repubblicano nella Francia illuminista del Settecento; il recupero di questi elementi rappresenta una base utile di riferimento per capire l’antropologia filosofica e la teoria politica del filosofo ginevrino.

a) Una premessa: l’idea di repubblica nella Francia del ‘700

I “philosophes” sono impegnati in una riflessione che tocca un problema di fondo, “quello del modo di governare gli uomini senza snaturarli, […] nell’eterna difficoltà di conciliare il massimo di giustizia distributiva con il minimo di sacrificio in termini di libertà individuale […] problema che, nel Settecento, fu del ‘radicale’ Rousseau come del ‘riformista’ Mably e del ‘borghese’ Quesnay”16. Il clima della Francia del Settecento, però, sullo sfondo del quale tali problematiche vengono affrontate, è influenzato dall’eco del pensiero dei repubblicani inglesi: eco che, da Montesquieu alla Rivoluzione, dà vita ad un entusiasmo per la repubblica e la virtù civica, che si sviluppa all’interno, prima, e in opposizione, poi, ad ogni potere assoluto. Montesquieu e Rousseau, insieme ad altre voci ed esperienze, forniscono forse le coordinate più adatte per cogliere questa progressiva diffusione del sentimento repubblicano.

Nell’Esprit des lois Montesquieu parla della complicata situazione di una Francia di repubbliche e stati assoluti; nelle sue pagine vengono presentati i problemi connessi a una simile compresenza, come, per esempio, quelli legati alle dimensioni e allo spirito delle repubbliche, o al ruolo della virtù e dei mœurs; si sottolinea, però, che “il problema storico posto dalle repubbliche moderne è solubile soltanto all’interno delle monarchie, in un compromesso, sempre difficile ma pur fecondo, tra le strutture nobiliari, cittadine, giudiziarie e il sovrano, che caratterizza gli stati moderni”17.

Rousseau entra in questo dibattito da una prospettiva nuova: “Pubblicando il suo Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, - scrive Venturi - Jean-Jacques Rousseau poneva un nuovo rapporto tra le nuove idee e la tradizione repubblicana. Sembra aver ritrovato la patria perduta [Ginevra] […]. Quel che egli cercava era un paese in cui società civile e governo si confondono e in cui governanti e governati facciano tutt’uno, in cui ‘le peuple et le souverain ne soient qu’une même personne’. ‘Un gouvernement démocratique, sagement tempéré’ dunque, in cui domina la legge e non la volontà dei singoli governanti, in cui la tradizione è tutto e nulla l’arbitrio […]. Così, per pagine e pagine, continua quella che un contemporaneo ginevrino chiamò ‘l’inestimable épître’ di Rousseau, e che era in realtà uno dei più curiosi e paradossali documenti della volontà d’inserire la tradizione repubblicana al cuore stesso del pensiero politico illuminista”18.

Le pagine di Venturi ci permettono di cogliere come Rousseau viva il progressivo “contatto e contrasto tra le idee politiche dell’illuminismo e le istituzioni repubblicane esistenti ancora nel secondo Settecento […]. Le idee di contratto, di eguaglianza, di democrazia trovarono nella tradizione repubblicana, nella realtà ginevrina, messe in movimento dai contrasti fra i patrizi e la borghesia, un primo elemento concreto, una prima soluzione politica. E’ utile leggere il Contrat social – continua Venturi - in chiave ginevrina, non, evidentemente, per identificare la visione politica di Rousseau con la realtà della città di Calvino, ma per vedere appunto come si venga stabilendo un rapporto sempre più stretto fra gli ideali e i fatti, tra le speranze e il movimento reale”19.

Su questo sfondo, rappresentato dal clima repubblicano della Francia in lotta con l’assolutismo, si inseriscono i riferimenti ad Aristotele e a Machiavelli.

b) Rousseau e la tradizione aristotelica

Non in depravatis, sed in his quae bene secundum natura se habent, considerandum est quid sit naturale”20. Questa epigrafe, tratta dalla Politica di Aristotele, con cui Rousseau apre il suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza, costituisce forse lo spunto migliore per cercare di cogliere la radice aristotelica, secondo cui ogni cosa tende ad un suo proprio compimento e sviluppo, in relazione all’idea russoiana di un telos della natura umana e di una sua perfettibilità.

Rousseau è lettore di Aristotele, e dell’influenza del secondo sul primo qui interessano principalmente due aspetti: l’idea di natura umana, che emerge principalmente nei due Discorsi, e la convinzione secondo cui si è uomini solo dopo essere stati cittadini, come viene sottolineato nel libro I del Manoscritto di Ginevra. Tutto l’itinerario teorico di Rousseau, dai primi discorsi al Contratto sociale, è infatti animato dalla persuasione che il passaggio dall’”uomo naturale” all’”uomo civile” comporti la perdita dell’”innocenza” originaria, ma soprattutto la piena realizzazione delle potenzialità umane in società. L’ingresso nel “corpo politico” costituisce l’attuazione e il compimento della “perfettibilità” che contraddistingue la “constitution humaine”.

Ci troviamo perciò di fronte ad un autore per il quale il concetto di “natura” è più ricco e al tempo stesso ambivalente rispetto alla tradizione giusnaturalistica, cui comunque Rousseau fa riferimento, ma dalla quale per molti aspetti prende le distanze. La natura infatti non è solo l’origine, il principio originario a livello ontogenetico e filogenetico, ma anche l’insieme delle facoltà di cui l’uomo è dotato, lo stadio di queste facoltà in potenza, il loro primo embrione: l’uomo selvaggio “avoit dans le seul instinct tout ce qu’il lui falloit pour vivre dans l’état de Nature, il n’a dans une raion cultivée que ce qu’il lui faut pour vivre en société”21. L’uomo selvaggio vive isolato, non può essere “méchant” perché non sa cosa vuol dire “être bon”22, possiede la libertà del volere e la perfettibilità “en puissance”23, l’istinto di conservazione e la “pietà”, entrambi pre-morali e quindi anteriori alla ragione, come istinti fondamentali24: l’uomo naturale dunque si distingue per la sua “capacità di perfezionarsi”, per la sua ripugnanza nei confronti della sofferenza dei propri simili e per un sentimento naturale che non ha nulla di sociale, ma che nella dimensione politica troverà, grazie a ragione e coscienza, il luogo della propria evoluzione in senso morale.

Questa ambivalenza del concetto di natura, come origine e sviluppo, che pone anche una differenza essenziale tra Rousseau, da un lato, e Hobbes e Locke 25, dall’altro, avvicina Rousseau ad Aristotele: basti pensare al concetto di natura come “sostanza delle cose”26 e all’idea di una potenzialità e quindi di un teleologismo interno alla natura umana27

Ecco allora che studiare l’uomo originario, come Rousseau fa nei suoi due Discorsi, vuole essere il primo passo per cogliere nella politica lo spazio atto al compimento delle potenzialità umane. Il Contratto sociale, riferendosi al passaggio dallo “stato di natura” allo “stato civile”, afferma quanto segue: “C’est alors seulement que la voix du devoir succédant à l’impulsion physique et le droit à l’appetit, l’homme, qui jusques là n’avoit regardé que lui-même, se voit forcé d’agir sur d’autres principes, et de consulter sa raion avantd’écouter ses penchans. Quoiqu’il se prive dans cet état de plusieurs avantages qu’il tient de la nature, il en regagne de si grands, ses facultés s’exercent et se dévesent, ses idées s’étendent, ses sentimene s’ennoblissent, son ame toute entiere s’éleve à tel point, que si les abus de cette nouvelle condition ne le dégradoient souvent au dessous de celle dont il est sorti, il devroit bénir sans cesse l’instant heureux qui l’en arracha pour jamais, et qui, d’un animale stupid et borné, fit un être intelligent et un homme”28. La socievolezza dunque non è facoltà già data all’origine, ma è, in ogni caso, potenziale e connaturata all’uomo; grazie a questa avviene il passaggio da una dimensione istintuale ed irriflessa ad una “morale”, legata alla ragione e alla coscienza. E’ in questo senso forte, e non meramente strumentale, che l’uomo “ne peut plus se passer de ses semblables”29.

Prima di arrivare però a definire meglio l’idea di una compiuta e realizzata natura umana entro la società politica, è bene, per motivi di chiarezza e completezza, soffermarsi sul rapporto decisivo tra “ragione” e “coscienza”, coordinate centrali dell’impianto dualistico dell’antropologia filosofica russoiana: solo partendo da qui si può infatti spiegare il senso del passaggio allo “stato civile”.

Accolgo l’interpretazione di Iring Fetscher: “In contrasto con la concezione dei giusnaturalisti, la coscienza non è, per Rousseau, né identica alla ragione, né un ‘giudizio’ (jugement): essa è un sentimento e più precisamente il sentimento dell’amore per l’ordine, un ordine entro il quale il singolo si ordina in rapporto al centro comune”30. La relazione tra “ragione” e “coscienza” è dunque strettamente legata alla dimensione sostantiva e la loro cooperazione permette lo sviluppo della moralità e della socievolezza. La ragione non è sufficiente, da sola, per agire secondo moralità: è strumento idoneo a fornire indicazioni, senza offrire un efficace movente. Subentra, a colmare questo vuoto, la coscienza, “espressione della ‘sensibilità attiva’ del soggetto, contrapposta alla sensibilità ‘passiva’, circoscritta all’esistenza materiale”31. Ma la stessa coscienza “come puro istinto morale non ha la forza sufficiente per imporsi alle passioni né per chiarire il significato e il fondamento della legge morale”32.

Perciò, solo la ragione e la coscienza, insieme, possono indirizzare all’esercizio della virtù e consentire il sorgere di una condotta morale: “E’ solo in questo momento che l’uomo è in grado di compiere una scelta morale, che sarà negativa se opporrà individuo a individuo, condizionando la felicità del singolo all’infelicità degli altri, nella trasformazione dell’amore di sé in amor proprio, e sarà invece positiva, se sarà ispirata appunto dalla coscienza come amore dell’ordine, della giustizia nei rapporti dell’uomo con i propri simili nel quadro dell’ordine dell’universo”33.

Il rapporto tra “ragione” e “coscienza” risulta perciò decisivo. Il dualismo antropologico (“ragione” e “coscienza” come espressione della componente “métaphysique et morale” e “passioni” come manifestazioni della componente fisico-materiale34) fa sì che l’uscita dallo stato di natura si configuri prioritariamente come un compito morale. Si afferma dunque una sorta di circolo virtuoso per cui “ragione” e “coscienza” consentono e fondano il passaggio all’”uomo morale” e ad uno stato politico ben ordinato; la société bien ordonnée, a sua volta, fa sì che “l’individuo sia posto in condizioni istituzionali tali da favorire lo sviluppo e l’espressione delle sue proprietà distintive”35.

Si giustifica anche in tal modo la trascrizione politica delle premesse antropologiche sinteticamente ricostruite. Si ricordi Rousseau: “Ce passage de l’état de nature à l’état civil produit dans l’homme un changement très rémarquable, en substituant dans sa condite la justice à l’instinct, et donnant à ses actions la moralité qui leur manquoit auparavant”36. E ancora poco più avanti: “On pourroit sur ce qui précede ajouter à l’acquis de l’état civil la liberté morale, qui seule rend l’homme vraiment maitre de lui”37.

Il passaggio delineato è quello da uno stato pre-umano alla piena realizzazione dell’individuo attraverso la scoperta della propria identità e la propria educazione morale:38 non si può parlare di comunità nello stato di natura perché esso è uno stato pre-umano, fatto di isolamento, indipendenza e autosufficienza, mentre Rousseau parla di comunità al di fuori dello stato di natura, perché è qui che prende corpo l’apertura all’altro e si intrecciano le relazioni morali39, essenziali per la costituzione dell’identità dell’individuo40. Chapman sostiene, giustamente, che l’“uomo si sviluppa nella società piuttosto che essere modellato dalla società. Qui è l’originalità della concezione roussoiana della natura umana”41 “Per Rousseau l’uomo dipende dalla società per ciò che egli è, nel senso che solo nella società le sue potenzialità possono essere realizzate o violate […]. Per Rousseau, la società è essenziale alla vera esistenza dell’uomo dal momento che egli è veramente tale solo in un ambiente sociale”42.

 

c) Rousseau e la tradizione machiavelliana

L’influenza di Machiavelli su Rousseau non è sistematica, ma la relazione tra i due è significativa per l’argomento qui trattato: si pensi, per esempio, al rapporto tra libertà dell’individuo e libertà della città, alla figura del Legislatore, al tema della dittatura.

Scrive Viroli riferendosi a Rousseau: “L’uomo, come la Città, è libero quando non dipende da un altro. L’analogia fra la libertà della Città e la libertà degli individui, si trova già in Machiavelli”43. E qualche pagina dopo: “La costituzione repubblicana di Rousseau rivela un’affinità sostanziale con il ‘vivere libero’ di Machiavelli. Come la repubblica di Rousseau il ‘vivere libero’ di Machiavelli si fonda sul prevalere dell’interesse comune sugli interessi particolari”44. Sia Rousseau che Machiavelli parlano dunque dei rischi della perdita di libertà, in riferimento alla quale si richiamano entrambi all’esempio della Roma uscita dall’oppressione dei Tarquini45, e Rousseau apprezza in Machiavelli il valore riconosciuto alla libertà, alla indipendenza dalla tirannide e dall’aggressione esterna, nonché il riconoscimento dell’importanza di un legame profondo tra la libertà pubblica della città e la libertà dell’individuo, costruito attorno alla virtù civica.

In secondo luogo la vicinanza tra i due autori riguarda, almeno per certi aspetti, la figura del Legislatore: “Tanto il Legislatore di Rousseau quanto quello di Machiavelli sono ‘ordinatori’. Il primo trasforma una moltitudine di individui in una ‘società bene ordinata’; il secondo instaura una ‘repubblica bene ordinata’. Entrambi si ispirano al principio del bene comune e meritano gloria imperitura in quanto fondatori della libertà. Tra il ‘prudente ordinatore’ di Machiavelli e il grande Legislatore di Rousseau c’è tuttavia una differenza di rilievo: il primo deve avere un’autorità assoluta, il secondo non ha alcun potere”46. Aveva sottolineato tale vicinanza anche Aldo Maffey: “Machiavelli penetra nel Settecento trasformando il principe in legislatore, attraverso una mediazione tra la tradizione corrente cinquecentesca empirico-realistica e quella seicentesca giusnaturalistico-razionale […]. Rousseau, accettando la pratica machiavelliana, si preoccupa di dare una giustificazione morale anche all’operato dell’autore del Principe, ponendosi come anello di congiunzione tra Alberico Gentili, Francesco Bacone e la tesi romantico-liberale che troverà espressione poetica nei Sepolcri di Ugo Foscolo”47. In questa ottica si legge in primo luogo la considerazione della dittatura da parte di questi due autori 48 e, quindi, il riferimento a Numa, che Rousseau condivide, al di là del mito, con Machiavelli, quasi negli stessi identici termini: ”Ceux qui n’ont vu dans Numa qu’un instituteur de rites et de ceremonies religieuses ont bien mal jugé ce grand homme. Numa fut le vrai fondateur de Rome […]. Ce fut Numa qui le rendit solide et durable”49. A Numa viene riconosciuto ciò che Rousseau definisce “le même esprit [qui] guida tous les anciens Législateurs dans leurs institutions. Tous chercherent des liens qui attachassent les Citoyens à la patrie et les uns aux autres, et ils les trouvérent dans des usages particuliers, dans des ceremonies religieuses qui par leur nature étoient toujouts exclusives et nationales [...], dans des jeux qui tenoient beaucoup les citoyens rassemblés, dans des exercices qui augmentoient avec leur vigueur et leurs forces leur fierté et l’estime d’eux-mêmes, dans des spectacles qui, leur rappellane l’histoire de leurs ancêtres, leurs malheurs, leurs vertus, leurs victoires, interessoient leurs cœurs, les enflamoient d’une vive émulation, et les attachoient fortement à cette patrie dont on ne cessoit de les occuper”50.

Simili e altri riferimenti, presenti nell’opera di Rousseau, consentono di mettere in luce il fatto che il filosofo francese consideri Machiavelli esponente importante della tradizione repubblicana, attento non più alla virtù del singolo principe, legata alla contingenza delle situazioni, ma alla possibilità che la virtù stessa riguardi il corpo cittadino nel suo complesso: “Machiavelli era un ‘honnête homme et un bon citoyen’, che, costretto dalle circostanze a ‘deguiser son amour pour la liberté’, aveva tuttavia manifestato la sua ‘intention secrète’ nei Discorsi e nelle Storie fiorentine e che per secoli era stato frainteso da ‘lecteurs superficiels et corrompus’. In quanto al Principe, Rousseau faceva propria la sua interpretazione in chiave obliqua sino a definirlo ‘le livre des républicains’ […]. Ormai l’immagine (e il mito) del Machiavelli repubblicano aveva definitivamente soppiantato quella del consigliere dei principi e del teorico della ‘ragion di Stato’”51. Sono note le parole di Rousseau nel Contratto sociale: “En feignant de donner des leçons aux Rois il en a donné de grandes aux peuples. Le Prince de Machiavel est le livre des républicains”52. Emerge quindi, da parte di Rousseau, un’interpretazione di Machiavelli in chiave repubblicana, che fa riferimento più al Machiavelli dei Discorsi che al Machiavelli del Principe.

“Machiavelli e Rousseau – scrive a tal proposito Viroli - parlano il medesimo linguaggio repubblicano. Tuttavia anche se l’immagine di una repubblica bene ordinata presenta nell’uno e nell’altro i medesimi caratteri, l’approccio resta diverso: Machiavelli si pone il problema di realizzare in concreto, non di giustificare razionalmente, la repubblica; Rousseau dedica la sua opera politica principale al problema della giustificazione razionale della repubblica e solo occasionalmente si interroga sui modi concreti di instaurare una costituzione politica repubblicana. Machiavelli e Rousseau appartengono entrambi alla tradizione repubblicana moderna e furono sostenitori dell’idea repubblicana della politica come l’arte di fondare e preservare una repubblica. Furono tuttavia repubblicani in modi diversi e le loro idee sul significato e sulla possibilità di una repubblica rivelano slittamenti importanti all’interno della tradizione repubblicana”53.

 

Una versione “comunitaria” del repubblicanesimo

Secondo Maffettone, “La concezione, tipica del repubblicanesimo, della libertà come assenza di dominio non può essere scissa dall’idea di virtuosa partecipazione alla vita pubblica, dato che è proprio quest’ultima ad assicurare che il cittadino non sia un suddito”54. E’ da questa osservazione che vorrei ripartire per sottolineare come in Rousseau si possano conciliare le discordanze interne alla tradizione repubblicana, nella prospettiva di un recupero comunitario del repubblicanesimo, organizzato appunto attorno all’idea di libertà come assenza di dominio e virtuosa partecipazione alla vita pubblica.

 

a) L’idea di libertà

Come scrive Derathé, “il fine principale, per non dire l’unico, di Rousseau, è la libertà [...]. L’originalità di Rousseau consiste proprio nell’avere posto il problema in questi termini. Tutti i suoi predecessori si chiedevano in quali condizioni potesse essere istituita un’autorità politica e rispondevano invariabilmente: con l’alienazione della libertà naturale. Per loro, l’istituzione del governo civile avveniva a spese della libertà, quasi che ognuno fosse stato disposto a sacrificare una porzione di libertà per garantirsi la sicurezza formando, insieme a tutti gli altri, un’unione di forze e di volontà. Per Rousseau, la sicurezza comune non deve comportare la sottomissione, e il problema è appunto far sì che gli uomini possano unirsi in un corpo politico senza per questo rinunciare alla libertà, che è un diritto inalienabile” 55.

Per Rousseau la libertà non è un prezzo da pagare nel passaggio alla “società civile”, è anzi una conquista morale dell’individuo che in società forma il proprio ”être moral”.

Da questo punto di vista l’originalità della sua posizione è notevole: l’idea che l’ordine politico non deve nascere a discapito della libertà lo separa infatti, in generale e in primis, dalla tradizione giusnaturalistica 56, dalle posizioni di Hobbes 57, e infine dall’individualismo atomistico del liberalismo. La chiave di lettura è rappresentata dai concetti di “contratto sociale” e “volontà generale”, condizioni trascendentali dell’ordine politico, che consentono a Rousseau di assegnare un senso nuovo a nozioni quali quelle di “perdita della libertà” e “alienazione dei diritti personali”. L’originalità sta nel fatto che egli prende in considerazione “l’atto in virtù del quale un popolo è un popolo” 58, grazie al quale cioè si crea la società politica come “corpo” e compare il “bene pubblico”: il suo artificio non accosta singoli individui monadologicamente strutturati e non crea un semplice vincolo formale, ma permette la costruzione di un legame in base al quale “les bras, et la vie même de tous ses membres” 59 sono comunitariamente intrecciate.

Il contratto sociale deve legare e obbligare senza assoggettare: anzi la cessione della libertà “naturale” e l’acquisizione della facoltà di partecipazione equivalgono all’acquisizione della “libertà morale”. L’ingresso nella società politica creata dal patto, infatti, consente la realizzazione delle condizioni per una condotta non improntata all’arbitrio e condizionata dalla passionalità. Rousseau esclude il patto di sottomissione e parla solo di patto di “associazione” da parte di un uomo libero in quanto, contemporaneamente, souverain e sujet. Osserva a tal proposito Derathé come per “Rousseau […] non sono gli individui a impegnarsi gli uni con gli altri, perché ‘l’atto di associazione comporta un impegno reciproco del pubblico con i singoli’. Questi contraggono un impegno reciproco con il corpo di cui diventano membri [...]. Si tratta dunque di una vera promessa reciproca fra il corpo del popolo, considerato come una persona morale, e i singoli” 60. Si realizza così un contratto in cui l’impegno è della “comunità” intesa come una sola “persona morale”: si parla di una obbligazione etica che è personale61, bilaterale62e incondizionata63 e di un impegno morale che è indirizzato al governo delle passioni 64.

La “volonté générale” è invece “regle du juste et de l’injuste”65: deve partire da tutti e dirigersi a tutti in quanto costituisce contemporaneamente la volontà di tutto il popolo e “di ognuno degli associati non in quanto individuo, bensì in quanto membro della comunità o del corpo sovrano”66 “On doit - argomenta Rousseau – concevoir par là, que ce qui généralise la volontà est moins le nombre des voix, que l’intérêt comun qui les unit: car dans cette institution chacun se soumet nécessairement aux conditions qu’il impose aux autres”67.

Quindi “l’essence du corps politique est dans l’accord de l’obéissance et de la liberté, et que ces mots de sujet et de souverain sont des corrélations identiques dont l’idée se réunit sous le seul mot de Citoyen” 68.

Si comprende perciò il significato della contrapposizione russoiana tra “liberté naturelle” e “liberté civile”, effetto del patto secondo giustizia: “Il faut bien distinguer la liberté naturelle qui n’a pour bornes que les forces de l’individu, - scrive Rousseau – de la liberté civile qui est limite par la volontà générale […]. On pourroit sur ce qui précede ajouter à l’acquis de l’état civil la liberté morale, qui seule rend l’homme vraiment maitre de lui; car l’impulsion du seul appetit est esclavage, et l’obéissance à la loi qu’on s’est prescritte est liberté” 69.

Viroli sottolinea ulteriormente questi aspetti: “Ritengo che i concetti di libertà positiva e libertà negativa non colgano il significato della teoria rousseauiana della libertà politica. Rousseau non è infatti il teorico della libertà positiva, ma della libertà nel senso repubblicano, ovvero della libertà di cui gli individui godono in virtù della buona costituzione politica che li mette al riparo dalla dipendenza dalla volontà di altri individui. E’ libertà ‘positiva’ in quanto consiste nell’obbedienza alle leggi che gli individui stessi si sono dati; è ‘negativa’ in quanto la sovranità della legge protegge ogni cittadino dai torti, dalle offese e dalle interferenze arbitrarie degli altri, si tratti di magistrati o di cittadini. La libertà che si fonda sulla sovranità della volontà generale e sulla forza delle leggi è per Rousseau il massimo bene di cui possono godere i cittadini di una ‘società bene ordinata’”70.

Rousseau è dunque vicino all’idea repubblicana di libertà come “condizione in cui una persona è nella sostanza immune, e immune nelle questioni cruciali, rispetto ad atti d’interferenza basati sull’arbitrio”71. Rousseau si rifà qui alle origini antiche della tradizione repubblicana, legate all’idea di libertà come opposto della servitù e alla relazione tra libertà e intersoggettività.

Non solo: a mio avviso, egli consente di considerare meno confuse alcune affermazioni tradizionalmente considerate “repubblicane” e che invece Skinner, ad esempio, non considera tali. “La prima – scrive lo stesso Skinner – mette in rapporto la libertà con l’auto-governo e, di conseguenza, collega l’idea di libertà individuale, in modo apparentemente paradossale, con l’idea di impegno civico (public service)”72. Rousseau, da par suo, sottolinea invece fortemente l’imprescindibilità del legame tra libertà individuale e impegno civico, non vedendovi alcuna incongruenza. Chapman sostiene, a buon diritto, che, “limitando la legislazione a questioni di interesse comune, Rousseau costringe ognuno a cercare il proprio bene personale senza invadere l’ambito dei beni personali degli altri. Così il dovere e l’aspirazione, la giustizia e l’interesse sono fatti coincidere”73.

L’altra tesi, – continua Skinner – correlata alla prima, stabilisce che possiamo essere obbligati a essere liberi; essa, quindi, lega l’idea di libertà individuale, in modo anche più platealmente paradossale, con il concetto di coercizione e costrizione” 74. Questa seconda critica tocca una questione centrale, che riguarda la compatibilità tra costrizione, legge e libertà. Prima di soffermarci allora sul valore della legge in Rousseau vorrei sottolineare come egli associ la costrizione alla libertà esclusivamente all’idea di assenza di potere arbitrario di qualcuno su altri: “Dal punto di vista di Rousseau impedire ad una persona di ottenere il potere è costringerla ad essere libera. La mancanza di potere sugli altri è la condizione della sua libertà, dello sviluppo della sua ragione e della sua coscienza, della sua vita in una società fondata sulla legge”75. Lo si può dire anche in altro modo: “Se ‘essere liberi’ significa non essere sottomessi alla volontà particolare di un individuo né sottomettere altri alla nostra volontà particolare, non è contraddittorio dire che chi è costretto ad obbedire alla volontà generale è in effetti ‘costretto a essere libero’” 76.

Il testo di Rousseau è quanto mai chiaro: “Quiconque refusera d’obéir à la volontà générale y sera contrain par tou le corps: ce qui ne signifie autre chose sinon qu’on le forcera d’être libre; car telle est la condition qui donnant claque Citoyen à la Patrie le garantit de toute dépendance personelle; condition qui fait l’artifice et le jeu de la machine politique, et qui seule rend légitimes les engagemens civils, lesquels sans cela seroient absurdes, tyranniques, et sujets aux plus énormes abus”77.

L’idea di un obbligo che viene imposto in nome di una “volontà generale” ha però spesso costituito terreno fertile per l’accusa di populismo nei confronti di Rousseau. Osserva Maffettone: “I repubblicani, infatti, non vogliono essere scambiati per populisti e neppure passare per rousseauiani dell’ultim’ora, e anzi tendono a criticare qualsiasi identificazione di questo genere”78.

Questa affermazione consente di affrontare uno dei limiti che hanno relegato Rousseau lontano dai riferimenti importanti all’interno del dibattito sul repubblicanesimo: l’accusa di “populismo” e l’idea che la sua nozione di libertà conduca ad un paradosso: “Infatti, benché una legge non arbitraria possa non dominare gli individui né compromettere la loro libertà, ne condiziona comunque inevitabilmente la libertà, restringendo la gamma delle scelte non dominate accessibili a coloro che sono soggetti alla legge; può darsi che non li privi della libertà ma, si potrebbe dire, li rende in ogni caso meno liberi”79.

L’accusa mossa a Rousseau è in sostanza quella di ridurre il popolo, nel suo essere “corpo collettivo”, a padrone e lo stato a servo, per cui la libertà si riduce all’autogoverno: “Per quanto possano apparire per altri aspetti repubblicani affascinanti le sue posizioni […], Rousseau ha probabilmente le maggiori responsabilità per la diffusione di questa concezione populista. La sua svolta populista ha rappresentato l’inizio di un nuovo corso che ha raggiunto il suo punto culminante solo allorché si è giunti a considerare l’ideale dell’autogoverno democratico come la principale alternativa, o quantomeno la principale alternativa tra le concezioni della libertà esistenti, all’ideale negativo della non interferenza. Ritenere populista la tradizione repubblicana significa proprio favorire quella dicotomia che ha reso invisibile l’ideale repubblicano” 80.

In realtà Rousseau condivide con i repubblicani lo stesso fondamentale interrogativo e problema, ma vede nella legge il fondamento della libertà stessa. Queste le sue parole nel Discorso sull’economia politica: “Comment se peut-il faire qu’ils obéissent et que personne ne commande, qu’ils servent et n’ayent point de maître; d’autant plus libres en effet que sous une apparente sujétion, nul ne perd de sa liberté que ce qui peut nuire à celle d’un autre? Ces prodiges sont l’ouvrage de la loi. C’est à la loi seule que les hommes doivent la justice et la liberté. C’est cet organe salutaire de la volontà de tous, qui rétablit dans le droit l’égalité naturelle entre les hommes. C’est cette voix céleste qui dicte à cheque citoyen les préceptes de la raison publique, et lui apprend à agir selon les maximes de son propre jugement, et à n’être pas en contradiction avec lui-même. C’est elle seule aussi que les chefs doivent faire parler quand ils commandent”81.
Risulta lampante la comunanza di spirito di questo scritto di Skinner in La libertà prima del liberalismo: “Come possono dei cittadini naturalmente auto-interessati essere persuasi ad agire virtuosamente, in modo tale che essi possano sperare di massimizzare una libertà che, se lasciati a se stessi, getterebbero senz’altro via? La risposta, di primo acchito, suona familiare: gli scrittori repubblicani ripongono tutta la loro fiducia nel potere coercitivo della legge […]. La principale giustificazione della legge è che, obbligando le persone ad agire in maniera tale da preservare le istituzioni di uno stato libero, essa crea e preserva un grado di libertà individuale che, in sua assenza, verrebbe rapidamente meno, aprendo le porte a una condizione di assoluta servitù”82.

A nostro avviso quindi è possibile rintracciare in Rousseau alcuni dei nodi concettuali più ricorrenti in Pettit e Skinner: è in sintonia con il primo, il quale afferma che, “come le leggi creano l’autorità di cui fruisce chi governa, così le leggi creano la libertà che i cittadini possiedono in comune” 83, e parla delle leggi come di qualcosa che interferisce senza dominare84. E’ vicino a Skinner non soltanto nella considerazione che ogni cittadino può “esercitare un uguale diritto di partecipazione alla creazione delle leggi”85, ma anche nella convinzione che “se uno stato o una repubblica deve essere considerata libera, le leggi che la governano – le regole che determinano i movimenti del suo corpo – devono essere approvate con il consenso di tutti i suoi cittadini, dei membri del corpo politico nel suo insieme. Nella misura in cui questo non accade, il corpo politico sarà spinto ad agire da una volontà diversa da quella propria, e sarà di conseguenza privato della sua libertà"86.

In secondo luogo, egli evita la deriva del “populismo” nel momento in cui, concependo la libertà stessa come il prodotto della legge, sostiene che essere completamente liberi significa essere pienamente cittadini in una società organizzata attorno alla legge: “J’aurois voulu vivre et mourir libre, c’est-à-dire tellement soumis aux lois que ni moi ni persone n’en pût secouer l’honorable joug; Ce joug salutare et doux, que les têtes les plus fiéres portent d’autant plus docilement qu’elles sont faites pour n’en porter aucun autre”87

Rousseau afferma quindi il fondamento della libertà nella legge e sostiene che, in una società in cui ciascuno è chiamato ad obbedire solo a se stesso proprio perché obbedisce alla “volontà generale”, espressione della raison publique, cioè di una deliberazione alla quale ogni cittadino partecipa in quanto membro dell’assemblea sovrana, il potere di dare leggi è lo strumento per vivere liberi e non sottomessi ad una volontà arbitraria. Il principio di fondo è quello enunciato nei Frammenti politici, e cioè che “nul ne peut se dire asservi quand il n’obeit qu’à sa volonté” 88.

Rousseau vede per questo motivo nelle leggi la condizione di conservazione del patto: “On est libre quoique soumis aux loix, et non quand on obeit à un homme, parce qu’en ce dernier cas j’obéis à la volontà d’autrui mais en obeissant à la Loy je n’obéis qu’à la volonté publique qui est autant la bienne que celle de qui que ce soit” 89. E quindi la seconda caratterizzazione essenziale della “volontà generale”, oltre il fatto di essere la volontà che esprime la raison publique, frutto della discussione comune nell’ambito del “corpo sovrano”, consiste nel “poter agire solo attraverso le leggi, mentre è contrario alla sua essenza statuire su un oggetto individuale” 90.

La legge è dunque garanzia ed espressione della libertà, in quanto, da un lato, tutela contro l’arbitrio dei singoli e, dall’altro, è il prodotto di volontà razionali singole impegnate a risolvere, attraverso il confronto dialogico, i problemi inerenti alla deliberazione sulle norme della convivenza. “La reciproca dipendenza dalla legge è il solo fondamento moralmente legittimo dell’associazione. Attraverso la dipendenza dalla legge gli uomini sono messi in grado di associarsi senza alcuna dipendenza personale che li renderebbe stolti moralmente. Attraverso la legge ognuno è messo in condizione di annullare le sue tendenze edonistiche. La legge infine libera e soddisfa le potenzialità morali dell’uomo” 91.

b) La virtù

La legge insomma mette in grado gli uomini non soltanto di vivere insieme nella libertà, ma anche di conquistare la virtù” 92. Da questo punto di vista, centrale è proprio il concetto di “vertu”, strettamente collegato alla legge: è la vertu publique infatti che garantisce l’unità politica e i diritti dell’individuo. Così Rousseau: “Dans tout païs où le Luxe et la corruption ne regnent pas, le témoignage public de la vertu d’un homme est le plus doux prix qu’il en puisse recevoir, et tutte bonne action n’a besoin pour sa recompense que d’être denoncée publiquement comme telle […]. Quel étoit le mobile de la vertu des Lacedemoniens si ce n’estoit d’être estimé[s] vertueux? Qu’est-ce qui àpres avoir conduit ces triomphateurs au Capitole les ramenoit à leur charue? Voilà une source d’intérest plu sure et moins dangereuse que les Tresors, car la gloire d’avoir bien fait n’est pas sujette aux mêmes inconveniens que celle d’être riche et donne une satisfaction beaucoup plus vive à ceux qui ont appris à la gouter”93.

Rousseau segue quindi una strada che, mentre lo separa dal costituzionalismo come strategia per il controllo istituzionale dei poteri (Locke e Montesquieu), lo pone in continuità con la tradizione del repubblicanesimo classico (vedi, ad esempio, i suoi richiami costanti a Roma), nella quale è proprio il “tono morale” (Taylor 94) della comunità a garantire l’equità delle decisioni. Naturalmente l’aver messo da parte il bagaglio del costituzionalismo liberale crea non pochi problemi 95, ma non è il caso di affrontarli in questa sede, altro essendo lo scopo di questo saggio.

Il rapporto stabilito tra virtù e ordine politico ci permette di qualificare Rousseau come critico del liberalismo individualistico e della scissione tra etica e politica. Scrive Fetscher, proprio su a questi aspetti: “La relazione tra etica e politica [in Rousseau] è dunque bilaterale. L’uomo morale (virtuoso) è il cittadino ideale perché non cura mai il proprio interesse privato di uomo fisico, ma sempre soltanto l’interesse superiore del proprio ‘Sé’ etico, che non può entrare in conflitto con l’altrui interesse privato e ancor meno con quello della comunità etico-giuridica poiché mira a beni la cui quantità è illimitata, né può mai essere esaurita per quanti se ne godano. Ma lo stato costituito offre pur nella sua forma deteriore l’idea di un ordine che la ragione può riconoscere per farlo amare dalla coscienza e aiutare così la virtù a signoreggiare le passioni”96.

Virtù e libertà sono quindi viste in un rapporto di reciproco sostegno, “l’insieme delle qualità che ognuno di noi, in quanto cittadino, deve possedere: qualità che ci consentono di servire di buon grado il bene comune e di difendere così la libertà della nostra comunità, qualità che ci permettono, di conseguenza, di garantire sia la sua grandezza sia la nostra libertà individuale”97.

Conclusioni

Gli elementi messi in luce vorrebbero essere dei sintetici richiami ad aspetti che possono servire per giustificare l’idea che Rousseau, forse troppo frettolosamente escluso dalla considerazione di quanti hanno affrontato il tema della comunità e del repubblicanesimo, costituisce invece una voce importante e un tornante storico decisivo.

Non solo infatti egli affronta molte delle questioni riprese ai giorni nostri dalla riflessione repubblicana, ma si dimostra attento ad alcuni importanti sviluppi interni a tale riflessione, cercando di argomentarli e fornendo soluzioni teoricamente rilevanti a problemi e contraddizioni: svolge l’apparente paradosso che lega libertà, legge e costrizione98; rafforza attorno al concetto di virtù civile l’idea di una sottomissione dell’interesse privato al bene pubblico99; sottolinea il valore dell’ordine per il mantenimento e il rafforzamento della libertà; ripresenta l’ideale classico della giusta proporzione della virtus100.

Rousseau recupera quindi il repubblicanesimo come istanza della cittadinanza attiva101. Egli, che critica allo stesso tempo il despotisme di Hobbes e il liberalismo proprietario di Locke, guarda al rapporto politico come ad una relazione connotata dal consenso e innestata sulla “voce del dovere”102. Ma il repubblicanesimo di Rousseau non si risolve soltanto “nell’adesione all’ideale della repubblica intesa come antitesi della tirannide o nell’adesione al governo popolare in antitesi al governo monarchico”103. Non siamo cioè di fronte semplicemente ad una teoria della buona costituzione politica legata ad una idea di libertà ridotta al semplice non “equiparare il modo in cui la legge restringe la libertà a quello proprio dei prepotenti o dei ladri”104.

Le riflessioni che ho proposto possono essere spunti per concentrare l’attenzione, in fase conclusiva, sull’idea russoiana di “comunità” (communauté), fondata sul concetto di indipendenza da ogni autorità o potere personale e intesa come autodeterminazione collettiva; il tutto sullo sfondo rappresentato dal problema del rapporto costitutivo tra comunità e identità. E’ proprio questa relazione di Rousseau la coordinata attorno alla quale si può tentare un recupero comunitario, lontano da ogni contaminazione organicistica.

La “comunità”, infatti, così come la progetta Rousseau, permette la nascita dell’uomo alla sua vera umanità: comporta la scoperta e l’affermazione dell’ identità umana, la realizzazione della vera natura dell’uomo, della libertà e dell’uguaglianza politica dei cittadini, innestate sulla legge e sulla virtù. La “società ben ordinata” è una communauté che realizza la “libertà morale” dei suoi membri105.

Rousseau è l’assertore di un legame forte tra formazione morale dell’identità e comunità. Si è avuto modo di sottolineare che la costituzione della comunità sia considerata come la scoperta e la realizzazione delle potenzialità umane e dell’identità morale dell’individuo: “Soit qu’un penchant naturel ait porté les hommes à s’unir en società, soit qu’ils y aient été forcés par leurs besoins mutuels, il est certain que c’est de ce commerci que sont nés leurs vertus et leurs vices et en quelque maniére tout leur être moral”106 E’ stato giustamente osservato che “la ricerca di un’identità personale poteva essere soddisfatta dalla creazione di una comunità solidale, un moi commune, in cui contemporaneamente ciascuno scoprisse se stesso nella massima solidarietà verso gli altri”107.

A dar vita e consistenza al patto sociale e quindi alla comunità politica è il preferire in ogni cosa il maggior bene di tutti, ideale che si incarna in una legislazione giusta, espressione della “volontà generale”, mirante al bene e alla conservazione dell’intera comunità, e in una “virtù pubblica” che concorre alla conservazione del “tout”. All’interno della comunità “i soggetti non trovano un principio di identificazione - e neanche un recinto asettico entro cui stabilire una comunicazione trasparente o, magari il contenuto da comunicare. Essi non trovano altro che quel vuoto, quella distanza, quella estraneità che li costituisce mancanti a se stessi: ‘donanti a’, in quanto essi stessi ‘donati da’ un circuito di donazione reciproca che trova la propria peculiarità appunto nella sua obliquità rispetto alla frontalità del rapporto soggetto-oggetto, o alla pienezza ontologica della persona”108. Il riscontro in questo passo dell’Emilio: “C’est la foiblesse de l’homme qui le rend sociable: ce sont nos miséres communes qui portent nos cœurs à l’humanité, nous ne lui devrions rien si nous n’étions pas hommes. Tout attachement est un signe d’insuffisance : si chacun de nous n’avoit nul besoin des autres il ne songeroit guéres à s’unir à eux. Ainsi de nôtre infirmité même nait nôtre frêle bonheur. Un être vraiment heureux est un être solitaire: Dieu seul joüit d’un bonheur absolu ; mais qui de nous en a l’idée ? Si quelque être imparfait pouvoit se suffire àlui- même , dequoi joüiroit-il selon nous ? Il seroit seul, il seroi misérable. Je ne conçois pas que celui qui n’an besoin de rien puisse aimer quelque chose : je ne conçois pas que celui qui n’aime rien puisse être heureux”109..

Nasce così una comunità politica omogenea la cui forza collettiva è la condizione che rende possibile la sopravvivenza dei singoli, in cui ciascuno è debitore nei confronti della comunità: lo scopo dell’association è quello di una vita buona, classicamente intesa come vita virtuosa; la realtà del “cittadino” è quella di colui che antepone l’”interesse comune” all’interesse “privato”; l’interesse preminente, ma niente affatto unico, diviene la conservazione della comunità stessa.

La chiave di lettura di una simile posizione sta nell’antropologia di fondo relazionale di Rousseau che, come abbiamo avuto modo di sottolineare, richiama esplicitamente la propria derivazione aristotelica riguardo all’idea di natura e di perfettibilità e relativamente alla “relazione tra ciò che [...] preoccupa come individuo e ciò che la società persegue in termini di obiettivi e scopi generali”: “Questa percezione della connessione tra ciò che è privato e ciò che è pubblico, tra un’opinione ‘particolare’ e un’opinione ‘pubblica’, rappresenta il primo difficile passo verso la coscienza politica, poiché si richiede che colui che appartiene alla comunità esprima bisogni, rivendicazioni e aspirazioni private in modo pubblico”110.

Rousseau fornisce dunque un contributo, non sempre adeguatamente valutato, alla definizione della comunità politica, “ribadendo più volte il grande valore della solidarietà sociale, della necessaria subordinazione dell’individuo al gruppo, dell’importanza della dipendenza impersonale, della vocazione redentrice dell’appartenenza e dei benefici che scaturiscono da una stretta identificazione tra individuo e gruppo”111 e sottolineando che le istituzioni di cui ha descritto fondamenta e strutture “rassemblent tout ce qui peut contribüer à former dans les mêmes hommes des amis, des citoyens, des soldats, et par consequent tout ce qui convient le mieux à un peuple libre”112.

Ciò avviene comunque all’interno di un percorso intellettuale che, partendo dalla critica della società del suo tempo, è indirizzato a progettare una comunità politica che, in nome del perseguimento del “bene comune”, consegua la libertà e l’uguaglianza politica dei cittadini e diventi luogo di realizzazione della vera natura dell’uomo. L’esito lo ha però condotto a scontrarsi con le concrete difficoltà della società moderna delle maschere e ha causato il finale ripiegamento su se stesso, che però non sa di abbandono dei propri ideali, quanto piuttosto di una loro personalissima difesa e conservazione, in attesa che un mondo esterno migliore li possa accogliere e rendere storicamente fecondi. Rousseau è “un filosofo che ‘sente’ prima di ‘pensare’, e pensa per immagini; un teorico della società assorto nell’osservazione del proprio io, lacerato da contraddizioni esistenziali delle quali ricercherà una soluzione razionale. In certo senso, tutta l’opera sua può essere letta come la trascrizione simbolica di una rivolta emotiva, come una proiezione dei suoi conflitti o del suo difficile rapporto con se stesso e con il mondo reale. Rousseau stesso ne fu ben consapevole. Riferì, appunto, alla singolarità del proprio io l’autenticità dell’esempio morale e civile che propose”113.

Il tentativo russoiano di realizzare il compimento dell’individuo nella comunità e quindi di formare in maniera interrelazionale l’identità trova infatti un esito segnato dal distacco netto tra piano speculativo e piano esistenziale della sua riflessione. Non “si tratta - però - […] di suggerire una ‘vita da anacoreta’, ma di indicare la maniera per trarsi fuori momentaneamente ‘dalla calca’ e per chiudere così ‘l’accesso alle passioni’ attraverso quella che si potrebbe definire una strategia del recupero finalizzata a ricostituire l’armonia interna del soggetto per poter poi tornare nell’insidioso labirinto della società” 114. In questa prospettiva si apre la possibilità di una realizzazione storica delle idee russoiane sulla comunità e si lascia aperto lo spazio per riflettere ancora sull’idea di una comunità politica. Solo in un’ottica simile si può cogliere il valore della sua riflessione su identità, autenticità e politica 115: egli ha per lo meno intravisto, nell’ambito delle coordinate filosofiche e storiche della modernità, lontano però dall’organicismo aristotelico e dall’individualismo moderno, l’importanza del ruolo della politica nella formulazione e nella realizzazione delle identità individuali e ha parlato di una identità che entra a far parte della richiesta politica, ammettendo la pertinenza antropologica della dinamica politica.

 

* Università di Perugia



Note

1 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, tr. it. M. Geuna, Einaudi, Torino 2001, p. V.

2 J.G.A. Pocock, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, tr. it. A. Prandi, Il Mulino, Bologna 1980, p. 559.

3 Ivi, p. 781.

4 Ivi, pp. 320-321.

5 Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, a cura di M. Viroli, tr. it. G. Ceccarelli, Il Mulino, Bologna 1989, p. 29.

6 M. Geuna, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, «Filosofia politica», XII, 1, (1998), p. 108.

7 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 97.

8 Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, a cura di S. Veca, tr.it. G. Rigamonti, Edizioni di Comunità, Milano 1994, pp. 177-178.

9 M. Geuna, La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali, cit., p. 109.

10 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. XVIII-XIX.

11 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, tr. it. P. Costa, Feltrinelli, Milano 2000, p. 32.

12 Per la distinzione tra libertà positiva e libertà negativa mi limito a rinviare a I. Berlin, Due concetti di libertà, in Quattro saggi sulla libertà, tr. it. M. Santambrogio, Feltrinelli, Milano 1989; la riflessione sull’idea di libertà come concetto di esercizio o di opportunità si trova invece in Ch. Taylor, Cosa c’è che non va nella libertà negativa, in AA.VV., L’idea di libertà, a cura di Ian Carter e Mario Ricciardi, Feltrinelli, Milano 1996.

13 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. XXII-XXIII.

14 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., pp. 353-354.

15 Ivi, p. 34.

16 A. Maffey, L’idea di stato nell’illuminismo francese, Studium, Roma 1975, p. 23.

17 F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1970,p. 58.

18 Ivi, pp. 96-97.

19 Ivi, pp. 104-105.

20“ dei de skopein en tois kata phusin echousi mallon to phusei, kai mê en tois diephtharmenois” (Aristotele, Politica, 1, 5, 1254a 35-37 cit. in J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, in Oeuvres complètes, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond, Éditions Gallimard, Paris 1964, III, p. 109).

21 Ivi, p. 152.

22 Cfr. Ivi, p. 154.

23 Cfr. Ivi, p. 162.

24 Cfr. I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, tr. it. L. Derla, Feltrinelli, Milano 1972, p. 28.

25 L’idea di una natura intesa non esclusivamente come principio originario, ma come progressivo sviluppo, tramite la “perfettibilità” di “facoltà potenziali” contenute già in origine nella “constitution humaine”, pone infatti Rousseau su di un piano radicalmente differente sia rispetto a Hobbes che a Locke. Mentre questi due ultimi autori hanno in comune l’idea che l’ingresso nel body politics non aggiunga né tolga nulla all’identità dell’individuo, che è quindi già un tutto di per sé e non ha alcun bisogno di legami interpersonali per realizzarsi, Rousseau, in virtù dell’idea di una natura dotata di un telos, ancora incompiuto nello “stato di natura puro” (cioè nell’isolamento),può guardare alla progressiva evoluzione della comunità come alla realizzazione della natura stessa dell’uomo.

26 “La sostanza è un principio ed una causa […] e questa è, in alcuni casi, causa finale […]; in alcuni altri casi, invece, essa è causa motrice prossima […]. La causa motrice si ricerca quando si tratti di spiegare il generarsi e il corrompersi delle cose, mentre l’altra causa si ricerca anche quando si tratti di spiegare l’essere delle cose” (Aristotele, Metafisica, VII, 17, 1041a 10-30 a cura di G. Reale, tr. it. G. Reale, Rusconi, Milano 1978, p. 350-351).

27 “Abbiamo trattato dell’essere che è primo e al quale si riferiscono tutte le altre categorie dell’essere, ossia della sostanza […]. E […] l’essere viene inteso nel significato di essenza, o di qualità, o di quantità e, in un altro senso, l’essere viene inteso secondo la potenza e l’atto” (Ivi, IX, 1, 1045b 25-35, p. 378).

28 J.J. Rousseau, Du contract social, in Oeuvres complètes, cit., p. 364.

29 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“De l’état de nature”], in Oeuvres complètes, cit., p. 479.

30I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 73.

31 R. Gatti, Una fragile libertà. Esercizio di lettura su Rousseau, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2001, p. 17.

32 A. Bonetti, Antropologia e teologia in Rousseau. La professione di fede del Vicario Savoiardo, Vita e Pensiero, Milano 1976, p. 171.

33 Ivi, p. 164.

34 Rinvio all’Emilio per una considerazione più sistematica dell’idea russoiana di passioni e del rapporto tra componente morale e fisico-materiale. Mi limito qui a far cenno a due passi: “Nos passions – scrive Rousseau – sont les principaux instrumens de notre conservation; c’est donc une enterprise aussi vaine que ridicule de vouloir les détruire; c’est controller la nature, c’est réformer l’ouvrage de Dieu” (J.J. Rousseau, Emile, in Oeuvres complètes, cit., pp. 490-491). E ancora: “Tout sentiment de peine est inséparable du desir de s’en délivrer; toute idée de plaisir est inséparable du desir d’en joüir ; tout desir suppose privation, et toutes les privations qu’on sent sont pénibles ; c’est donc dans la disproportion de nos desirs et de nos facultés que consiste nôtre misére. Un être sensible dont les facultés égaleroient les desirs seroit un être absolument heureux.
En quoi donc consiste la sagesse humaine ou la route du vrai bonheur ? Ce n’est pas précisement à diminüer nos desirs ; car s’ils étoient au dessous de nôtre puissance, une partie de nos facultés resteroit oisive, et nous ne jouirions pas de tout nôtre être. Ce n’est pas non plus à étendre nos facultés, car si nos desirs s’étendoient à la fois en plus grand raport, nous n’en deviendrions que plus misérables : main c’est à diminuer l’excés des desirs sur les facultés, et à mettre en égalité parfaite la puissance et la volonté. C’est alors seulement que toutes les forces étant en action l’ame cependant restera paisible, et que l’homme se trouvera bien ordoné” (Ivi, pp. 303-304).

35 R. Gatti, Una fragile libertà. Esercizio di lettura su Rousseau, cit., p. 30.

36 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 364.

37 Ivi, pp. 365.

38 Anche Ch. Taylor sottolinea questo aspetto parlando di Montesquieu e Rousseau: “La vita politica […] è in un senso importante prioritaria rispetto agli individui. La vita politica fonda la loro identità, rappresenta la matrice in virtù della quale essi possono diventare i tipi di esseri umani che sono” (Ch. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, tr. it. R. Rini, Feltrinelli, Milano 1993, p. 248).

39 Proprio riguardo l’idea di “indipendenza” nello stato di natura si può cogliere un’ulteriore differenza di piani tra Rousseau, Hobbes e Locke. Il filosofo francese concorda con Hobbes e Locke nel ritenere che l’indipendenza originaria significhi libertà da qualsiasi potere personale o autorità, ma la giudica una condizione difettiva, un’assenza di relazione, una mancanza di rapporto.
E’ qui che s’incentra innanzitutto la differenza prospettica nei confronti del modello hobbesiano: il non-rapporto, l’irrelatività, fatta in Hobbes di timore e conflitto, non è, per Rousseau, il prodotto di una stato civile distruttivo del legame sociale, ma ciò che precede l’uno e l’altro. In secondo luogo una tale impostazione è lontana dall’egoismo razionale dell’atomismo liberale, che vede in una presuntuosa indipendenza, paradossalmente incapace di sussistere senza ricorrere alla creazione contrattuale di un governo e di un sovrano, una condizione paradigmatica e ideale.

40 E’ bene qui sottolineare però un aspetto, che non ho modo di sviluppare, ma che è necessario tenere presente per una lettura completa e problematica delle idee di Rousseau che sto illustrando: Rousseau parla, relativamente alla comunità, di una formazione dell’identità umana e non di una identità propria e singolare. Non si prende in considerazione, cioè, quella che Derrida, in un testo molto chiaro nel definire i problemi dell’amicizia politica intitolato Politiche dell’amicizia, definisce la “quantificazione della singolarità”. Derrida non fa mai esplicito riferimento a Rousseau, ma qualche suo spunto coglie indirettamente alcuni dei limiti dell’idea russoiana di “comunità”. Il rischio in sostanza è quello di sfociare verso l’impersonalità e l’indifferenza, di dimenticare l’infinita singolarità che l’umanità dell’uomo introduce nella proporzionalità del tout (Cfr. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. G. Chiurazzi, Raffaello Cortina, Milano 1995).

41 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, tr. it. A. Prontera e N. D’Elia, Edizioni Micella, Lecce 1974, p. 137.

42 Ivi, p. 153.

43 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, Il Mulino, Bologna 1993, p. 152.

44 Ivi, p. 168.

45 “S’ils tentent de secoueur le joug, ils s’éloignent d’autant plus de la liberté; que prenant pour elle une licente effrenée qui lui est opposée, leurs revolutions les livrent presque toûjours à des séducteurs qui ne font qu’aggraver leurs chaînes. Le Peuple Romani lui-même, ce modale de tous les Peuples libres, ne fut point en état de se gouverner en sortant de l’oppression des Tarquins” (J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, cit., p. 269). Cfr. Machiavelli: “E debbesi presupporre per cosa verissima che una città corrotta che viva sotto uno principe, come che quel principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può ridurre libera […]. Ma non si vede il più forte exemplo che quello di Roma; la quale, cacciati i Tarquini, poté subito prendere e mantenere quella libertà; ma morto Cesare, morto Gaio Gallicola, morto Nerone, spenta tutta la stirpe cesarea, non potette mai, non solamente mantenere, ma pure dar principio alla libertà” (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 17, in Opere, a cura di R. Rinaldi, Utet, Torino 1999, pp. 528-529).

46 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 186.

47 A. Maffey, L’idea di stato nell’illuminismo francese, cit., pp. 61-62.

48 Tutto il capitolo sesto del libro quarto del Contratto sociale, com’è noto, riprende motivi espressi nei capitoli trentaquattro e trentacinque del primo libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.

49 J.J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projettée, in Oeuvres complètes, cit., p. 957. Queste le parole di Machiavelli nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: “[Numa], trovando uno popolo ferocissimo e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa al tutto necessaria a voler mantenere una civiltà; e la costituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella repubblica; il che facilitò qualunque inpresa che il senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare […]. Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città” (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1, 11, in Opere, cit., pp. 493-497).

50 J.J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projettée, in Oeuvres complètes, cit., p. 958.

51 G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 294-295.

52 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 409.

53 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 20.

54 S. Maffettone, Repubblicanesimo, in “Filosofia e questioni pubbliche”, 5, 1/2000, p. 53.

55 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, tr. it. R. Ferrara, Il Mulino, Bologna 1993, p. 279.

56 Cfr. J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, cit., pp. 183-184.

57 Cfr. I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 93.

58 Ivi, p. 730.

59 J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, in Oeuvres complètes, cit., p. 248.

60 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 274.

61 Emblematiche le parole di Rousseau: “Les engagemens qui nous lient au corps social ne sont obligatoires que parce qu’ils sont mutuels, et leur nature est telle qu’en les remplissant on ne peut travailler pour altrui sans travailler aussi pour soi” (J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 373).

62 Afferma chiaramente a tal proposito Rousseau: “On voit par cette formule que l’acte d’association renferme un engagement réciproque du public avec les particuliers, et que chanque individu, contractant, pour ainsi dire, avec lui-même, se trouve engagé sous un double rapport; savoir, comme membre du Souverain envers les particuliers, et comme membre de l’Etat envers le Souverain” (Ivi, p. 362).

63 Cfr. I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 96.

64 Torna a farsi evidente la centralità del dualismo dell’antropologia di Rousseau: saranno infatti ragione e coscienza che, insieme, indirizzeranno all’esercizio della virtù e al controllo delle passioni, rappresentando rispettivamente la fonte delle indicazioni e il loro movente.

65 J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, cit., p. 245.

66 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 284.

67 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 374.

68 Ivi, p. 427.

69 Ivi, pp. 364-365.

70 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 19.

71 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 4.

72 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 81.

73 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, cit., p. 66.

74 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 81.

75 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, cit., p. 66.

76 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 150.

77 J.J. Rousseau, Du contract social, cit., p. 364.

78 S. Maffettone, Repubblicanesimo, in “Filosofia e questioni pubbliche”, cit., p. 61.

79 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 355.

80 Ivi, p. 42.

81 J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, cit., p. 248-249.

82 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., pp. 95-96.

83 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 49.

84 Cfr. Ivi, p. 48.

85 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 25

86 Ivi, pp. 23-24.

87 J.J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes, cit., p. 112.

88 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“Du pacte social”], cit., p. 484.

89 J.J. Rousseau, Ivi, [“Des loix”], cit., p. 492.

90 R. Derathé, Rousseau e la scienza politica del suo tempo, cit., p. 446.

91 J.W. Chapman, Rousseau totalitario o liberale?, cit., p. 53.

92 Ivi, p. 56.

93 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“De l’honneur et de la vertu”], cit., p. 501.

94 In questo senso Taylor parla di Rousseau “come uno dei progenitori del discorso sul e del riconoscimento […], perché comincia a riflettere seriamente sull’importanza dell’uguale rispetto e anzi lo considera indispensabile per la libertà” (J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, tr. it. L. Ceppa e G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1999, p. 31). A suo avviso infatti il filosofo francese rappresenta in primo luogo colui che ha contribuito decisivamente allo “spostamento dell’accento morale” verso la “voce interiore” e il “contatto coi propri sentimenti”, favorendo in tal modo la nascita della nozione di autenticità: “Rousseau presenta ripetutamente la moralità come il seguire una voce naturale che è dentro di noi; spesso questa voce è sommersa dalle passioni indotte dalla nostra dipendenza dagli altri, la principale delle quali è l’orgoglio o amour propre. La salvezza morale viene dal recupero di un contatto morale autentico con se stessi; Rousseau dà addirittura un nome a quel contatto intimo con sé, più fondamentale di qualsiasi idea morale, che è la fonte di una gioia e di una appagamento così grandi: ‘le sentiment de l’existence’” (Ivi, p. 14). Su questo contatto morale autentico con se stessi, lontano dall’orgoglio egli può costruire “una reciprocità perfettamente equilibrata [che] rende innocua la nostra dipendenza dall’opinione e la fa essere compatibile con la libertà” (Ivi, p. 34).

95 Il problema consiste nell’individuare gli strumenti adeguati per affermare una sovranità che garantisca il rispetto dei diritti individuali senza ricorrere alla strategia del costituzionalismo, quella strategia che, dividendo i poteri, rende impossibile, per Rousseau l’istituzione di una vera sovranità. Si viene però a creare in Rousseau una sorta di circolo vizioso: egli parla infatti di una autolegislazione da parte del popolo sovrano, ma si accorge della difficoltà di pensare un popolo sempre sufficientemente “illuminato” e “saggio”. Se bisogna prendere “gli uomini come sono” è chiaramente controfattuale pensare che la garanzia del rispetto dei diritti individuali e in generale l’attuazione di decisioni che non cadano mai nell’arbitrio possa essere affidata soltanto alla “virtù pubblica” di un sovrano che è fatto, come Rousseau stesso riconosce, non di “dei”, ma di “esseri umani”, fragili, fallibili, soggetti alle passioni.

96I. Fetscher, La filosofia politica di Rousseau, cit., p. 81.

97 Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo, cit., p. 93.

98 Cfr. Ivi, pp. 86-87.

99 Cfr. M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 21.

100 Ivi, p.13.

101Chacun de nous met en commun sa personne et toute sa puissance sous la suprême direction de la volonté générale; et nous recevons en corps claque membre comme partie indivisibile du tout. A l’instant, au lieu de la personne particuliere de chaque contractant, cet acte d’association produit un corps moral et collectif composé d’autant de membres que l’assemblée a de voix, lequel reçoit de ce même acte son unité, son moi commun, sa vie et sa volonté. Cette personne publique qui se forme ainsi par l’union de toutes les autres prenoit autrefois le nom de Cité, et prend maintenant celui de Republique ou de corps politique” (J.J. Rousseau, Du contract social, cit., pp. 361-362).

102 “Mais quand les citoyens aiment leur devoir, et que les dépositaires de l’autorité publique s’appliquent sincérement à nourrir cet amour par leur exemple et par leurs soins, toutes les difficultés s’évanouissent” (J.J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, cit., p. 253-254).

103 M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau e la teoria della società ben ordinata, cit., p. 167.

104 P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, cit., p. 355.

105 A questo tema è dedicato l’ottavo capitolo del libro primo del Contratto soiciale.

106 J.J. Rousseau, Fragments politiques, [“De l’honneur et de la vertu”], cit, p. 504-505.

107 S.S. Wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, tr. it. R. Giannetti, Il Mulino, Bologna 1996, p. 540.

108 R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998, pp. XVI-XVII.

109 J.J. Rousseau, Emile, cit., p. 503.

110 S.S. Wolin, Politica e visione. Continuità e innovazione nel pensiero politico occidentale, cit., pp. 92-93.

111 Ivi, p. 547.

112 J.J. Rousseau, Lettre à D'Alembert, in Oeuvres complètes, cit., p. 96.

113 P. Casini, Introduzione a Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 9.

114 R. Gatti, L'enigma del male. Un'interpretazione di Rousseau, Studium, Roma 1996, pp. 73-74.

115 Interessante proprio riguardo al legame tra passioni, identità e autenticità il testo di Elena Pulcini, L’individuo senza passioni, che, proprio relativamente a Rousseau, così si esprime: “Rousseau mostra […] che le passioni acquisitive e competitive generano, in virtù della coazione all’appropriazione alimentata dal bisogno di distinzione e di riconoscimento, la nascita di una falsa identità, di un’identità distorta e inautentica. A questa, Rousseau oppone l’immagine di un Io autentico, che è capace di dar vita a un legame sociale fondato su uguaglianza e giustizia, uscendo dalla dinamica delle passioni acquisitive e riattivando quelle che si propone qui di chiamare passioni comunitarie” (E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 13).

 

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2000

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